L’Eni fa a “pezzi” il suo passato

L’Eni fa a “pezzi” il suo passato

Petrolchimico di Gela addio.

E' la stessa direzione dell'Eni a sancirne la cancellazione, dopo 60 anni di vita, con un comunicato stampa in cui si annuncia l'avvio degli "interventi di demolizione degli impianti non più utilizzati, che porteranno al recupero di aree libere per nuove attività industriali e alla riduzione dell’impatto visivo" dello stabilimento.

Scompaiono così anche i simboli di una raffineria e di una industria chimica di base, che, dopo la scoperta del petrolio nella terraferma e in mare, avevano fatto sperare e sognare Gela e la Sicilia, modificando il volto e le abitudini di interi territori, regalando un benessere effimero ad almeno 4 generazioni con l'illusione di uno sviluppo economico mai concretamente arrivato.

Oggi, ai gelesi, di quel sogno texano degli anni '50 resta ben poco. L'ultimo greggio rimasto nei giacimenti, ormai in via di esaurimento, viene estratto e portato via con le stesse navi che una volta invece scaricavano per la raffineria al porto-isola di Gela migliaia di tonnellate di petrolio proveniente da ogni parte del mondo.

Scompare uno stabilimento tra i più grandi d'Europa che il primo presidente dell'Eni, Enrico Mattei, decise di realizzare qui prima che morisse (col pilota del suo jet e un giornalista) in un disastro aereo a Bascapè (Pavia) che molti indicarono come conseguenza di un attentato eseguito dalla mafia in virtù del patto scellerato concluso con i potentati economici del settore internazionale del petrolio.

Avviato nel 1963 ma inaugurato solo il 10 marzo del 1965 dal presidente della Repubblica, Giuseppe Saragat, e dallo stesso Mattei, l'allora "stabilimento Anic, occupò, negli anni '70 (periodo della sua massima espansione) fino a 10 mila persone, tra dipendenti del diretto e dell'indotto. 

Un boom economico ed occupazionale impressionante che però non ebbe continuità ne' all'interno ne all'esterno del complesso industriale. Dentro non si costruirono altri impianti, anzi, cominciarono a ridurre la linea di produzione dei fertilizzanti, mentre fuori dallo stabilimento c'era il deserto. L'industria collaterale tanto vagheggiata si rivelò un'utopia.

La chimica secondaria e fine (Metilmetracrilato e Metionina) rimase solo nei buoni propositi delle rivendicazioni sindacali, anche per una politica tanto miope quanto assurda dell'Eni che vendeva le sue produzioni ad un prezzo uguale per tutti: alle aziende di Gela come alle imprese di Udine o di Aosta. Nessun vantaggio per le fabbriche del luogo, che finivano con l'acquistare i prodotti Montedison (plastiche, concimi, glicoli, soda, ipoclorito, ecc.).

Costosa, insufficiente e problematica la gestione dell'area per lo sviluppo industriale (Asi) affidata a presidenti e direttori espressione della lottizzazione politica ed economica dei partiti, dei sindacati e dell'Ente nazionale idrocarburi, rimasto committente unico delle imprese e delle coop gelesi, ormai quasi scomparse totalmente.

Così oggi si cerca di rilanciare il settore industriale rendendo disponibili per gli investitori le aree dismesse degli impianti chimici e della ex raffineria che si presentano dotate di tutte le utilities necessarie e di collegamenti viari e telematici avanzati, in un sito dove c'è soltanto una green-refinery con 300 dipendenti, frutto di una riconversione produttiva che abbandona il fossile per produrre bio-carburanti e aumentare in futuro le attività nel settore dell'economia circolare da fonti rinnovabili. Il comunicato della demolizione degli impianti inattivi, per un gioco del destino, è arrivato mercoledì scorso, lo stesso giorno, cioè il 10 marzo, dell'inaugurazione del petrolchimico e si riferisce a un accordo del 2019 col ministero dell'ambiente. 

La "Raffineria di Gela" ha quindi dato mandato a Eni Rewind, la società ambientale del gruppo, di procedere alla demolizione del camino SNOX, dell'altezza di 145 metri, nato per eliminare zolfo e ossidi di azoto dai fumi del pet-coke e di altri combustibili bruciati nei forni della centrale termoelettrica; l'eliminazione di tre gruppi termici (G100, G200 e G300) nonché del relativo parco stoccaggio; delle trivelle Coking 1 e 2 (alte 80 metri); della torcia D-D1 che raggiunge l'altezza di 150 metri. E' in corso, inoltre, la demolizione degli impianti "Texaco" e  "Lavaggio gas" che fornivano idrogeno alla raffineria. Stessa sorte è prevista per l’impianto "Acido solforico". Presso la struttura della logistica mare e in particolare nel cosiddetto "Pontiletto", è stata già avviata la rimozione di 5 linee che servivano a caricare prodotti petroliferi sulle navi cisterna.

Questi interventi, il cui costo supera i 25 milioni di euro, dovrebbero protrarsi per circa un anno, garantendo occupazione a decine di dipendenti dell'indotto locale ed assicurando il futuro riutilizzo dei materiali smontati.  Finora sono stati inviati a recupero quasi 2900 tonnellate di rottami metallici (principalmente ferro, acciaio inox e alluminio), ma anche motori e cavi elettrici, che potranno trovare una “seconda vita” in ambito civile e industriale.

Parlano tre sindacalisti storici, Crapanzano, Siciliano e Tilaro

Niente vestigia nostalgiche di archeologia post-industriale. Niente imponenti simboli di una storia che si sta per cancellare anche visivamente. Cosa resterà di 60 anni di petrolchimica?

«Rimarranno i terreni inquinati, se alla demolizione non seguiranno le vere bonifiche delle aree recuperate – dice Salvatore Crapanzano, storico segretario dei chimici della Uil –  da molti anni in pensione. La verità è che l'Eni sta smantellando tutto per il comportamento ostile del territorio che l'ha indotto a dire basta e andare via. Troppo pesanti le pressioni giudiziarie sui suoi dirigenti. Così hanno deciso di chiudere, anche perchè i margini di guadagno erano crollati. La green Refinery? Una pia illusione».

C'è un pizzico di rabbia, tanta delusione per un sogno di sviluppo svanito miseramente e molta amarezza anche nelle parole di un altro dirigente sindacale, Rocco Siciliano, per tanti anni ai vertici della Flerica-Cisl. 

«Provo una grande pena – ci confessa Siciliano – per la fine di un grande progetto industriale che dava prospettive di sviluppo a una terra popolata da contadini che hanno saputo qualificarsi e diventare operai specializzati nella conduzione di impianti, nella costruzione e nella manutenzione di interi stabilimenti, fino a distinguersi nel mondo per la loro alta professionalità. Ora, tutto è finito ed è ripresa l'emigrazione dei gelesi. La raffineria green infatti è solo una speranza, la stessa speranza che alimenta lo sviluppo del turismo per il rilancio economico di Gela». 

Abbiamo sentito anche Franco Tilaro, per molti anni ai vertici provinciali dei chimici della Cgil, segretario della Camera del lavoro e poi dirigente sindacale dell'Ugl. Tilaro mette da parte i sentimenti e, preoccupato, espone una sua riflessione.

«Una volta – commenta Tilaro – si discuteva e ci scontravamo sui problemi occupazionali, produttivi e ambientali della raffineria ma lavoravamo perchè c'era un progetto industriale e su quello si batteva la città degli operai, dei commercianti, dei contadini, di tutti, ma una classe politica incapace – aggiunge – ha guardato l'Eni con una visione taumaturgica nella perenne richiesta di elemosine e di grazie risolutive di certi problemi che invece sono e restano politici come quelli della sanità.

Oggi, dopo che molti amministratori hanno contribuito alla chiusura dello stabilimento – prosegue – c'è chi ci viene a dire che Gela dovrebbe essere una città normale. Ma cosa intendono per città normale? Una città senz'acqua, una città sporca, caotica, dall'igiene precaria, con una sanità carente, senza servizi sociali e con mille altri problemi? 

Di fronte a tutto questo – conclude Tilaro –  qualcuno trova l'ardire di dare la colpa ai cittadini, alla carenza di risorse finanziarie e suggerisce di attingere alle compensazioni Eni. Si sbagliava prima e si sbaglia ora. L'Eni va chiamata per le sue capacità imprenditoriali, per costruire insieme un progetto in grado di dare prospettive di crescita e di sviluppo a questa città che troppi nemici cercano di demolire.

Cominciamo con i 90 posti letto già assegnati che però ancora mancano in ospedale, come l'Utin, e chiediamo la copertura degli organici, cioè almeno 360 tra medici, infermieri e ausiliari. Insomma apriamo la fabbrica della sanità, l'ecosistema della salute e diamo assistenza, lavoro e sviluppo».