1991-2021, i primi 30 anni del Tribunale di Gela, Cantaro, primo presidente: «Tempio della giustizia»

1991-2021, i primi 30 anni del Tribunale di Gela, Cantaro, primo presidente: «Tempio della giustizia»

Seppure con poco personale e da 24 mesi senza presidente, il Tribunale di Gela è ancora vivo e, malgrado certe Cassandre ne annunciassero il decesso sin dalla nascita, ha compiuto 30 anni di attività. 

Prima che venisse istituito, i gelesi erano costretti a lunghi e faticosi viaggi a Caltanissetta per vedersi garantito il diritto alla giustizia. Una giustizia da sempre lontana che si percepì distante in maniera crudele, disumana, specie quando, durante la guerra di mafia, i morti ammazzati restavano a terra per ore e ore in attesa dell'arrivo di un magistrato dal capoluogo.

Già all'inizio degli anni '60, moti popolari, con blocchi di scuole, strade e ferrovia, sotto la regia di estemporanei comitati di lotta, sollecitarono l'istituzione del tribunale a Gela. Ma a parte l'arresto di un pittoresco ambulante locale, "Annardo" Peritore, e la denuncia di un paio di giovani, non successe nulla. I relativi disegni di legge vennero puntualmente ignorati dal Parlamento. Tutti tranne quello del Pci, a firma del sen. Salvatore Crocetta, approvato l'1 marzo del 1990.

Primo presidente di questo importante e atteso presidio giudiziario è stato  il dott. Salvatore Cantaro (nella foto), un magistrato di grande esperienza nella lotta alla mafia (era stato pretore a Riesi, giudice istruttore e sostituto procuratore a Enna, presidente della Corte d'Assise a Caltanissetta) soprannominato "lo sceriffo", che si è rivelato l'uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Il tribunale fu provvisoriamente ospitato nell'edificio di viale Mediterraneo dove avevano sede la scuola media "San Francesco" e l'ex pretura, naturale prosecuzione del palazzo municipale, in attesa dell'attuale cittadella giudiziaria. A inaugurarlo, il 10 gennaio del 1991, in piena guerra di mafia, intervenne il capo dello Stato, Francesco Cossiga, che portò in omaggio alla città il progetto del palasport a lui poi intitolato.

Abbiamo raggiunto nella sua casa di Roma il presidente, Cantaro, che, andato in pensione col titolo di "procuratore generale aggiunto onorario della suprema Corte di Cassazione", oggi esercita la professione di avvocato, patrocinante in Cassazione.

– Presidente Cantaro, cosa ricorda, in particolare, di quella storica giornata?

«Fu una giornata emozionante, trasmessa in diretta tv da Salvo La Rosa su Antenna Sicilia. Ricordo che era presente, oltre a gran parte dei componenti del Governo, anche l’attuale Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, all'epoca vice segretario nazionale della Democrazia cristiana. Per me era la posa simbolica della prima pietra del "Tempio della Giustizia" a Gela».

– Il primo problema del tribunale di Gela fu l'insufficienza degli organici di magistrati e personale amministrativo di fronte ad una immensa mole di processi vecchi e nuovi. Ad amministrare la giustizia qui arrivarono gli "uditori", giudici di prima nomina, quelli che Cossiga chiamò "giudici ragazzini", coniando a Gela un termine poi divenuto una sorta di "bandiera".

«Cossiga si rivolse ai giovani magistrati di Gela impegnati in trincea contro la mafia equiparandoli nella loro battaglia ai “ragazzi del 1899” anch’essi inviati a combattere sul fronte della prima guerra mondiale nel 1917.  Il Tribunale di Gela si trovò sommerso da un numero straordinario di processi provenienti dal Tribunale di Caltanissetta, la cui celebrazione impose un formidabile impegno per impedire la scadenza dei termini di custodia cautelare e/o la prescrizione. Mi mandarono migliaia di processi del 1972 che avevano dormito nei cassetti per venti anni.  Nel frattempo, Gela continuava ad essere campo di battaglia tra "stidda" e "cosa nostra". In città si susseguivano gli omicidi, si sparava e si uccideva ovunque».

– Qualche mese dopo venne in visita al tribunale il neo ministro di grazia e giustizia, Martelli, accompagnato dal giudice Falcone. 

«Sì. Ricordo che era il 16 maggio del 1991. Arrivarono a Gela il ministro, Claudio Martelli, e il mio amico, il giudice Giovanni Falcone, nominato nel frattempo direttore generale degli "Affari Penali", al fine di concordare opportune strategie di contrasto alla criminalità dilagante. Quel momento dei miei 25 anni di servizio è impresso nei ricordi più cari ed in una foto che mi ritrae seduto dietro Giovanni Falcone. Quel filo diretto che aveva dato immediati risultati, purtroppo, si spezzò con la strage di Capaci».

– Si dice che dopo anni di battaglie civili, a determinare l'istituzione del tribunale di Gela siano stati in realtà l'orrore e l'emozione per i 120 morti ammazzati e i 150 feriti della guerra di mafia. Molti scommisero su una sua rapida chiusura. Che ne pensa?

«L’istituzione del Tribunale di Gela era stata fortemente osteggiata. Nel discorso inaugurale io rappresentai il timore di essere lasciato solo senza magistrati, senza personale amministrativo e senza mezzi: Purtroppo, i miei timori si rivelarono fondati». 

– Lei ha fatto il presidente, il gip, il gup e, come sosteneva qualche avvocato,  in certe fasi dibattimentali poco chiare, anche il pubblico ministero... 

«Mi sono prodigato a fare un pò di tutto: ero l’unico ad avere solida esperienza nel settore penale". Una troupe della Bbc (la Tv inglese), venne a fare uno speciale avendo sentito parlare di un giudice italiano che, pressoché da solo, pretendeva di amministrare giustizia “in terra di nessuno”. La difficile realtà gelese venne ben descritta dal giornalista Giorgio Bocca, nel suo libro L’Inferno». 

– Partirono anche a Gela i maxi processi. Lei, da presidente, divenne il soggetto più a rischio. Dopo che furono sventati almeno un paio di attentati per farla fuori solo nell'agosto del '92 le venne assegnata la scorta di "primo livello" con 13 uomini armati. 

«Ricordo che la mia abitazione di Enna venne trasformata in un fortino attorniato da garitte blindate e militari armati in assetto da guerra. Gli ennesi se ne ricordano ancora come io mi ricordo del loro affetto e della loro solidarietà».

– Perchè non si trasferì mai a Gela?

"Continuai ad abitare ad Enna per non esporre la mia famiglia a rischi maggiori. Un giorno, in trasferta a Genova, durante l’audizione di uno dei tanti collaboratori di giustizia, con l’aula gremita di imputati per mafia dietro le sbarre, giunse la notizia di una telefonata che annunciava la presenza di una bomba in Tribunale. Capii che era il momento di reagire con fermezza e senza battere ciglio dissi: “giacché qui si salta in aria tutti insieme, l’udienza prosegue regolarmente”. Per fortuna fu un falso allarme.

– Dopo di lei le cose non sono andate molto meglio. Anzi. Nel 2000 una sentenza-lumaca di condanna per associazione mafiosa della "famiglia Madonia" fece attendere 8 anni la motivazione. Uno scandalo che suscitò anche le ire del Capo dello Stato, Napolitano.

«Ne ho sentito parlare. Io sono andato via da Gela nel 1996 rinviando di qualche mese il mio trasferimento a Roma, al ministero della Giustizia, per ultimare il processo Bronx, assurto a simbolo della riscossa di Gela. Scrissi e depositai anche la motivazione della sentenza (circa un migliaio di pagine) nei 90 giorni fissati. Poi, ho avuto la soddisfazione di vedere confermata la sentenza in appello e in Cassazione». 

– Ebbe mai sentore di collegamenti tra mafia e politica?

«Sì, tante volte e non solo a Gela. Ho tentato di indagare per quanto consentitomi dai ruoli rivestiti».

– Presidente Cantaro, perchè a suo avviso il fenomeno mafioso ha attecchito in maniera così estesa e profonda nella società gelese?

«Per l’improvvisa ricchezza profusa dall’Eni e per l’assenza dello Stato in ogni settore. La   conversione   socio-economica   muta   anche   il volto della criminalità, che comincia a conoscere i vantaggi dell’associazionismo. "Cosa nostra" mette solide radici e si espande. Un'altra temibile organizzazione, la "stidda", sorge   dall’aggregazione di       famiglie   di   malavitosi    che si contrappongono  a “cosa nostra”   e,     in   taluni   momenti,   riesce   persino   a sopraffarla. Lo scenario era questo e lo Stato stava fermo, non cambiava e non capiva».

– Cosa conserva della sua esperienza acquisita a Gela?

«Un ricordo indelebile unitamente a gratificazione e soddisfazione per i risultati ottenuti, nonostante la esiguità di giudici, personale amministrativo e mezzi».

– Ha mai pensato di farne un libro?

«Ho iniziato a scriverlo, con riferimento non solo all'esperienza di Gela ma a tutta la mia attività giudiziaria».

Auguri, Presidente! E... lunga vita al Tribunale.