Nerina, la seducente protagonista dell’ultimo romanzo di Silvana Grasso, è proprio come l’autrice

Nerina, la seducente protagonista dell’ultimo romanzo di Silvana Grasso, è proprio come l’autrice

C’è una grande attesa per il nuovo romanzo di Silvana Grasso La domenica vestivi di rosso, Marsilio, in libreria dal 18 ottobre.


L’autrice che ci fa dono del primo capitolo del suo romanzo, avverte: non lasciatevi ingannare dall’acqua cheta di questo primo capitolo. La storia è sconvolgente ammaliante devastante seducente feroce. Dopo un inizio pacato procede per rapide, da torrentello diventa un fiume potente maestoso magnifico.

Questo romanzo ha in sé l’andatura della vita, che sembra mite ma poi azzanna e, se non ci ammazza, ci lascia mutilati. E nonostante tutto, gli esseri umani vogliono viverla la vita, vogliono amare, sognare, sperare di non essere troppo ingannati, mutilati.

Nerina, la seducente bellissima protagonista, che non s’innamora per terrore dei sentimenti, terreno a lei sconosciuto, in cui è facile saltare in aria come su una mina, seduce molti uomini recitando lolita, ma vive l’eros come può viverlo un’attrice in un film, lo vive con disamore, disimpegno, sapendo che anche l’amore è una recita, una finzione, una stronzata spacciata per felicità.

Le nostre congratulazioni a Silvana Grasso, filologa classica, scrittrice a 360° (narrativa, saggistica, teatro), che meritatamente ha appena vinto per la Cultura la 42° edizione del premio Telamone, riservato alle Eccellenze siciliane.

«Bellissima, una bambola, una madonnina, una rosa di maggio», diceva quasi istericamente Angelina, la più piccola delle quattro sorelle di mio padre, quasi potesse, enfatizzando la mia bellezza, rimediare all’errore di madre natura. Ero nata io, una femmina. E specialmente dopo che, solo qualche minuto prima, proprio lei l’aveva gridato di petto «maschio maschio maschio», per tre volte di fila non una, mentre tutto il sangue che aveva in corpo tracimava, come la piena d’un torrente, dai capillari degli zigomi al collo.

Com’era potuto succedere un così sciagurato equivoco che, solo nel giro di qualche secondo, li aveva precipitati tutti quanti dal paradiso all’inferno? E tutti erano ancora lì, increduli che fossi femmina, incazzatissimi che fossi femmina, aspettando che un’altra smentita, opera d’un miracolo o d’una stregoneria, li riportasse dritto in Paradiso.

Non che lo conoscessero per esperienza il Paradiso, ma per sentito dire era un posto magnifico, e proprio per questo lontano assai dalla Terra. Chi aveva la fortuna d’andarci, ci prendeva gusto, e non tornava indietro mai più nella fottutissima Terra.

In faccia Angelina, che l’aveva sparata proprio grossa, era ormai un tizzone di fiamme, ma cercava come poteva, penosamente e invano, di rimediare al madornale errore esaltando con allettanti similitudini la mia presunta bellezza, a cui nessuno dava il minimo peso.

Altra era la bellezza sperata, che io non avevo, un pendaglino di carne rossastra tra le coscette, moribondo almeno alla nascita, ancora avvolto nella sugna d’umori e placenta, che mi avrebbe comunque battezzato bellissimo, solo in quanto maschio.

La vicenda era andata pressappoco che lei, anticipando l’espulsione reale del mio corpicino dal ventre di mia madre, quando ancora di me si vedeva solo un ciuffo di capelli, lunghi e scuri, spalmati di strutto uterino, non ce l’aveva fatta ad aspettare che un’altra doglia mi sputasse di botto fuori tutta e, assieme a me, sputasse la feroce verità: ero femmina.

Solo obbedendo a un comune desiderio di famiglia, che più era un’ossessione condivisa con madre e sorelle, aveva dunque gridato maschio, senza ancora avermi affatto vista, senza conferma alcuna da parte della levatrice, come se in estasi lei sola avesse visto la Madonna con tanto di corona in testa e manto celeste.

Fu estasi brevissima, estasi d’un istante, solo un attimo dopo disintegrata dalla levatrice che, con la grazia d’un macellaio, m’afferrò per i piedini e mi sventolò drasticamente a testa in giù, come un coniglietto sparato.

Incazzata per essere stata defraudata del suo ruolo di levatrice, che le dava diritto di dirlo lei e solo lei, prima in assoluto, se era nato un maschio o una femmina, si vendicava su di me, ferocemente agitandomi da destra a sinistra, da sinistra a destra.

Mi mostrava, dunque, come un trofeo di caccia, ancora sanguinante per lo sparo. Lo vedessero tutti che ero una femmina, che non ce l’avevo quel “ciondoletto” di carne, ammalorata dalle fatiche del parto, che alla nascita distingueva, una volta per sempre, i maschi dalle femmine.

Non usò parole per dare sfogo alla sua vendetta. Si servì del mio corpicino, innocente insanguato infreddolito insugnato, come fosse la prova testimoniale d’un delitto. E d’un doppio delitto si trattava. Ero femmina, e in più spacciata per maschio, sia pure per pochi istanti.

Attorno al letto di mia madre c’erano, tra suocera cognate e vicine di casa, nove femmine. Mio padre se ne stava schiacciato al muro del corridoio, in posizione di fuga, quasi presago dell’imminente tragedia, che già s’avvertiva nell’aria. Nessuna di loro però disse niente, non un aggettivo, non un commento, non una preposizione, non un avverbio, non un’esclamazione, del tipo oh ah eh ih.

Il silenzio totale fu inappellabile sentenza. Tutte guardarono con odio, quell’odio che nasce dall’essere stati fottuti frodati ingannati, Angelina, ritenendola addirittura responsabile del mio mancato sesso di maschio, quasi che proprio lei lo avesse, per stregoneria, per affatturazione, mutato all’ultimo minuto o addirittura mutilato.

Prima di scomparire a testa bassa, come un cane bastonato, quasi ad alleviare le conseguenze del suo fatale errore, sia pur dettato dalla buona fede, si sentì appena la sua voce. Angelina disse ch’ero bellissima, una bambola una madonnina una rosa di maggio.

Era un dettaglio ch’io fossi bellissima o bruttissima, non ero maschio e questo concludeva la faccenda. Analogie, similitudini, con bambole rose o più pregiati fiori, non avrebbero mutato d’un pelo la delusione, che grandissima era e nessuno si sforzava di nasconderla.

Mio padre, che certo non era uomo di coraggio, cresciuto solo tra femmine tribali, scappò per tempo a rinchiudersi dentro uno sgabuzzino senza presa d’aria, a rischio di morirci soffocato, lui che da sempre soffriva d’asma grave.

Si gettò per morto su una rete arrugginita e senza materasso, lamentando che una terribile emicrania lo stesse per uccidere da un attimo all’altro.
Non era vero, ma sperava che la menzogna giungesse materna a sollevarlo da ogni responsabilità per il maschio mancato e dall’ipotesi, non infondata, d’un tribunale d’inquisizione, organizzato sul momento da tutte le femmine di casa, perché subito si individuasse e processasse il colpevole.

Non solo ero femmina, ma ero la seconda figlia femmina, e mio padre non aveva fratelli, cui delegare la continuità della specie maschio in famiglia.
Quella volta andò come lui sperava, nessuno lo stanò dallo sgabuzzino.

Avevano un cuore dunque, pensò, o semplicemente non valeva la pena di perdere un solo secondo con un coglione come lui, considerato poi quello scirocco terribile di fine giugno. Meglio mangiare, meglio dormire, meglio dimenticare, dopo le dieci ore perse dietro al parto, i litri di sudore versati, gli spasmi da digiuno.

Sparirono tutti, prima che io fossi lavata e liberata dalla sugna della placenta, che aveva mascherato un altro problema, il vero problema, di cui nessuno fino a quel momento s’era accorto».