Il cattivo romanzo di Gela (Storia di uomini e di mezzi uomini)

Il cattivo romanzo di Gela (Storia di uomini e di mezzi uomini)

 Il “cattivo” romanzo di Gela non è stato ancora scritto perché assomiglia troppo alla storia della città, nuda e cruda.

Eppure, chi vuole lasciarsi alle spalle il passato, deve scriverlo quel romanzo, deve conciliarsi con la verità, non dimenticare nulla di ciò che è avvenuto ed accettarlo anche se è indigeribile. La rimozione pretende che si abbia coscienza dei fatti, che non siano gli altri a metterceli sotto gli occhi. 

Il settimanale L’Espresso ha riportato all’attenzione nazionale un triste primato di Gela, la nascita di bimbi malformati (questione ripresa nel numero scorso dal Corriere di Gela). Nel recente passato è balzato agli onori della cronaca anche il fenomeno delle malattie, talvolta letali, contratte dagli operai dello stabilimento petrolchimico. Quanto a me, mi sono occupato dei malati di mente di Gela, un numero così alto da destare stupore e preoccupazione, e sull’assenza scandalosa di presidi medici in grado di assistere le famiglie dei pazienti psichiatrici, avvalendomi di testimonianze autorevoli e di esperti, che hanno collegato il fenomeno all’inquinamento dei terreni e dell’aria, e le sue ricadute nell’alimentazione. C’è quanto serve per guardare alla storia degli ultimi sessanta anni di Gela con rigore e severità. 

Nessuno può alzare le spalle e voltarsi dall’altra parte. Serve un processo, fuori dall’aula di un tribunale, se non lo si può avere dentro; serve sapere e capire com’è andata e trarne le conseguenze. 

Se Gela vuole sapere, capire e dire le cose come stanno (e come stavano), ed ottenere dunque una legittimazione morale a questa richiesta di verità, non può assolvere se stessa a priori e deve essere disposta a farsi giudicare sulla parte avuta negli eventi: i compromessi al ribasso, i comparaggi, le omissioni, i silenzi. 

Ci sono state connivenze, che pur non essendo materia di reato, vanno trovate e giudicate. Ci vuole grande coraggio e grande rispetto per se stessi e senso di appartenenza. Solo avendo le carte in regola, autorevolezza morale, si potrà voltare pagina e guardare al futuro. 

Ciò che ricordo qui è un contributo, un piccolo contributo, nella ricerca della verità. Comincio da un episodio, che ritengo centrale ai fini della ricostruzione dei fatti e delle responsabilità di Gela: il parere favorevole espresso il 18 aprile 1986 dal consiglio comunale di Gela all’insediamento di una megacentrale a carbone che avrebbe bruciato ogni giorno 10.000 tonnellate di carbone, immettendo nell’atmosfera una quantità enorme di ceneri filtrate e ceneri pesanti. L’episodio è apparentemente estraneo alla storia dell’industria petrolchimica, ma in realtà fotografa in modo inequivocabile ritardi, omissioni, superficialità, ignoranza e disinvolti compromessi. 

Il 18 aprile del 1986 sugella una condizione di palese inferiorità della città, che attraverso la sua legittima rappresentanza popolare, votò la realizzazione di un megaimpianto che avrebbe fatto di Gela una camera a gas. Si espresse a favore della pena capitale per la città, un suicidio di massa, che non fu consumato perché all’indomani della improvvida delibera del consiglio comunale, per la prima volta, si registrò una mobilitazione civile  che costrinse il massimo consesso civico a ritornare sui suoi passi. Senza quella mobilitazione probabilmente Gela avrebbe accanto al petrolchimico una mega centrale a carbone. Il voto del 18 aprile 1986 sancisce anche un’altra verità: la distanza dei decisori locali dalla volontà popolare. Una distanza misurata da una condizione di sudditanza nei confronti dell’industria. Non erano bastati ventisette anni per avere coscienza di ciò che si era verificato a Gela: la devastazione dell’ambiente e i seri pericoli per la salute delle comunità. 

Il colpo di reni dell’altra Gela ci fu e fu decisivo. Si impedì il misfatto ma si lasciarono le cose come stavano, il petrolchimico continuò ad avvelenare la città, di fatto indisturbato, grazie anche alle alleanze politiche su cui l’industria poteva contare a Roma e Milano. Le immissioni di sostanze inquinanti nell’aria, nelle acque e sul terreno sforarono i limiti reali di sicurezza. Il petrolchimico non poteva né essere trasferito, né essere costretto a riciclarsi. Prevalsero le ciminiere. Resta tuttavia nella storia della città la presa di coscienza dell’altra Gela che, adescata dalla prospettiva di 800 posti di lavoro, non abboccò e seppe proteggere la propria salute: undicimila gelesi firmarono una petizione “contro” la mega centrale dell’Enel, si costituì un Comitato e vennero a Gela ambientalisti, scienziati, tecnici, medici per urlare il loro “no”.  Non sortì nulla, la città rimase ostaggio. 

Eppure in quei ventisette anni di torpore, la denuncia più forte e chiara era  venuta  dagli operai. Nel 1974 il Consiglio di Fabbrica Anic-Isaf consegnò all’amministrazione provinciale di Caltanissetta un dossier sulla sicurezza e l’ambiente che avrebbe dovuto non far dormire la notte i destinatari politici. La città, scrissero gli operai, non può continuare a sentirsi estranea all’industria  che si trova nel giardino di casa, né farsi mortificare tacendo su tutto. “Pericoli obbiettivi connaturati coll’attività dello stabilimento, si afferma nel dossier,  non si possono ignorare e andranno valutati con attenzione e coraggio più che accettarli passivamente e con rassegnazione, o tollerarli quale contropartita alle nostre esigenze di sviluppo e benessere.”

La sveglia la suonarono proprio loro, gli operai. “…le condizioni ambientali non garantiscono il rispetto della salute dei lavoratori..., la stessa minaccia grava sulla collettività gelese, sia in termini di salute che in termini di sicurezza.” Se “l’ubicazione dello stabilimento, così vicina a Gela, può essere definito un incidente storico, dovuto alla politica paternalistica dei dirigenti politici e alla loro impreparazione tecno-amministrativa…nessuna giustificazione è più accettabile per continuare nello stesso errore.”

E invece si continuò nello stesso errore. Accadeva infatti che “Oggi come ieri, l’Anic, indisturbata amplia i propri impianti nello stesso perimetro definito 12 anni fa e si avvicina sempre più alla città, fino a sfiorarla con impianti industriali a volte pericolosi, come il Clorosoda… l’Anic produce e tiene immagazzinato in migliaia di tonnellate benzine, aromatici, ammoniaca, acrilonitrile, cloro, anidride solforosa, perossidi esplosivi dello zolfo, idrogeno solforato. Non ci si può limitare irresponsabilmente agli scongiuri…”

Il dossier, compilato puntigliosamente dal Consiglio di Fabbrica, offre un ventaglio di urgenze che mettono i brividi: “eliminare gli scarichi a mare dei fanghi contenenti sali mercuriosi…, spostamento dei serbatoi intermedi di stoccaggio in prossimità degli impianti, eliminazione di combustibili ad alto tenore di zolfo, causa del grave inquinamento atmosferico e dei terreni agricoli circostanti con anidride solforosa (260 tonnellate al giorno di anidride solforosa scaricata nell’atmosfera).”

Dall’8 luglio 1974, è la data in cui viene pubblicizzato il dossier, Gela non può più non sapere. E fingere di non sapere. Non successe niente. Silenzio plumbeo, il confronto fra il management del petrolchimico e il Consiglio di fabbrica dell’Anic-Isaf rimase nel recinto delle vertenze sindacali e all’interno della dialettica sindacale, nella quale peraltro c’era chi suonava l’arpa e chi i tamburi. 

Mi chiedo per quale ragione plausibile l’Enel volesse realizzare la megacentrale a carbone, conoscendo le criticità ambientali dell’area gelese, contrabbandando l’impianto come un “dono” alla comunità, con la promessa di un grande sviluppo occupazionale, e disattendendo il Piano energetico nazionale. Un impianto di produzione di energia elettrica a carbone, affermarono gli  esperti a Gela, “non è necessario, né utile, e addirittura illegittimo.” Una realtà che avevano sotto gli occhi: Gela disponeva di sole, vento e di una morfologia vocata alla produzione di energia eolica e solare. Gianni Silvestrini, autorevole membro del Cnr chiamato a Gela per il “no” alla mega centrale a carbone, espose un progetto di riconversione dell’energia solare mediante cicli termodinamici. E fu ignorato.

Perciò  lasciano senza fiato l’infamia dei tanti silenzi, l’atteggiamento rinunciatario, la connivenza dei decisori ad ogni livello e l’arroganza di manager che credettero di poter fare quello che volevano, sollecitati dal big business di breve momento, del tipo “prendi i soldi e scappa”. 

Già allora si conosceva l’obsolescenza degli impianti, non era nemmeno un buon affare, piuttosto una opportunità di prendere soldi dei contribuenti e girarli alle imprese commissionarie. Un episodio da manuale, attraverso il quale si potrebbe arrivare ai mandanti ed agli esecutori, alla banda che pianificava il saccheggio del Mezzogiorno d’Italia, grazie ai tanti meridionali che “non c’erano, e se c’erano dormivano”. 

Eyvind Hytten, autore con Marco Marchioni di “Industrializzazione senza sviluppo. Il caso Gela”, fu impietoso nel 1986. “Guardando indietro, bisogna ammettere che c’è stato molto assenteismo, molta mancanza di senso della comunità, di interessi comuni, di identità siciliana, meridionale e gelese. Troppa influenza di piccoli interessi, clientelismi, tutto ciò che spezza la forza della comunità locale… Con quale coraggio, concluse, chi propone si permette di riaprire il discorso, oggi, in disprezzo delle necessità di Gela… restando nell’alveo dello sviluppo basato sull’accumulazione anziché sulla distribuzione dei beni, delle opportunità, sull’ulteriore emarginazione della collettività…”

Immaginate, per un momento, che quanto abbiamo raccontato, ed è ben poco rispetto alla realtà, vada a processo e che sul banco degli imputati siedano i responsabili dello scempio e i loro compari, gli utili idioti e cacicchi locali. Se ci riuscite ad immaginarlo, ed è davvero difficile,  riterreste che ci siano, prove, circostanze, fatti, indizi, testimonianze, che permettano ad una giuria in buona fede, di scrivere un verdetto di condanna, magari solo davanti all’altare della storia?