Ecco come Texasvalley divenne Mafiaville

Ecco come Texasvalley divenne Mafiaville

L’antònimo della libertà è la necessità…La necessità è la dipendenza di forze esterne, la libertà consiste nel dipendere solo da se stessi. (Jean-Luc Nancy

 Vorrei morire anche stasera se dovessi pensare che non è servito a niente. (Dario Fo)

Timeo Danaos et dona ferentes (Virgilio, Eneide)

E’ passato quasi mezzo secolo, nessuno ha ancora fatto i conti su quanto lo Stato ha speso a Gela, sia nell’investimento propriamente industriale – la costruzione e la messa in opera della fabbrica – quanto nei servizi e nelle infrastrutture (porto isola, disalatore, urbanizzazione villaggio residenziale). Una volontà di rimozione? Eppure avrebbe meritato una partita doppia, costi da un lato e benefici dall’altro, è stata la sperimentazione sul campo della politica meridionalista a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta. Che si sia trattato di un massiccio investimento di capitale pubblico, comunque, è pacifico. E che, nell’ottica meridionalista, sia stato un autentico fallimento è altrettanto pacifico.    

E’ passato quasi mezzo secolo, nessuno ha ancora fatto i conti su quanto lo Stato ha speso a Gela, sia nell’investimento propriamente industriale – la costruzione e la messa in opera della fabbrica – quanto nei servizi e nelle infrastrutture (porto isola, dissalatore, urbanizzazione villaggio residenziale). Una volontà di rimozione? Eppure avrebbe meritato una partita doppia, costi da un lato e benefici dall’altro, è stata la sperimentazione sul campo della politica meridionalista a cavallo fra gli anni cinquanta e sessanta. Che si sia trattato di un massiccio investimento di capitale pubblico, comunque, è pacifico. E che, nell’ottica meridionalista, sia stato un autentico fallimento è altrettanto pacifico. 

In ottica nazionale tuttavia fra i benefici va compreso il peso di Gela nella bilancia dei pagamenti in virtù dell’export dei prodotti derivati dalla raffineria, dalla centrale termoelettrica e dalla chimica di base. Se è così – ed è così – il presupposto che giustifica la mission delle partecipazioni statali e della Cassa per il Mezzogiorno non ha alcun fondamento. Perciò bisogna dire le cose come stanno: è stato attribuito al Mezzogiorno, cioè a Gela, il lavoro “sporco”. La produzione petrolchimica non era altro. 

Quanto al passato, le bugie sono tali e tante, nel tempo, che è difficile perfino elencarle tutte. Proviamo a farlo, riassumendole nell’accezione generale. L’intervento industriale da parte dell’Eni, per quanto imponente dal punto di vista tecnico-finanziario, è stato narrato come un contributo decisivo allo sviluppo socio-economico meridionale. Gela, come prototipo della macchina del cambiamento messa in moto da uno Stato finalmente consapevole della necessità di aprire al Sud. Un contributo i cui effetti sarebbero andati al di là della produzione, dell’investimento e della stessa creazione di nuovi posti di lavoro.

I discorsi che precedono e seguono la realizzazione della “cattedrale nel deserto”, non solo quelli puramente celebrativi, prospettano e garantiscono il miracolo. La creazione di un nuovo ciclo di produzione e gli effetti espansivi dell’industria avrebbero suscitato cambiamenti di carattere sociale e culturale. Viene anticipata la trasformazione dell’economia locale da prevalentemente agricola in agricolo-industriale. 

La mission dell’investimento non è la convenienza tecnico-produttivistica. Il core business ha un’anima pulsante. E’ Enrico Mattei, tenace e lungimirante, ed insieme pragmatico e creativo, a declamare con enfasi le finalità sociali dell’intervento, che giustificano la rilevante entità dell’investimento e i rischi che esso comporta in termini economici a causa della pessima qualità del greggio locale. 

Mattei usa i pozzi della piana di Gela come cavallo di Troia per compiere il salto in Medio Oriente, dove intende scommettere sulla rottura del cartello delle grandi compagnie petrolifere mondiali, sparigliando il campo. L’Eni utilizzerà il credito concesso a Mattei, dopo la sua morte, facendone lo specchietto per le allodole. 

In un foglio informativo dell’Ente di Stato, pubblicato nel 1967, l’azienda mette l’accento sulla “opportunità che una impresa petrolifera diluisca i suoi mezzi tecnici e finanziari in interventi operativi non determinati dalla esclusiva valutazione delle esigenze aziendali.” Gela insomma è uno strumento di politica economica dello Stato, fatta propria dall’Eni.

Le prospettive miracolistiche troveranno, anche troppo facilmente, un terreno fertile a Gela ma non si può certo addebitare all’esagerato credito concesso in loco le responsabilità di alimentare aspettative illusorie. La soluzione finale di tutti i problemi secolari di sottosviluppo è alimentata per decenni con argomenti, promesse, assicurazioni, in modo sistematico al fine di tranquillizzare anche i più scettici e ottenere obbedienza.

E’ legittimo chiedersi, tenendo fermo l’opzione sociale, che cosa si sarebbe potuto realizzare a Gela se i soldi dei contribuenti fossero stati spesi per promuovere le potenzialità locali nel settore turistico, ambientale, agricolo, e nell’energia sostenibile. Insomma, se si fosse trattato di un grazioso dono, non si sarebbe scelto l’industria petrolchimica primaria, la più avara e costosa in termini occupazionali. 

L’idea che si potesse cancellare la povertà in un’area del Mezzogiorno trionfò perché aveva in sé gli elementi utili a renderla credibile ed accettabile. Meglio che niente, in ogni caso. Nell’immaginario popolare il miracolo poteva farlo il petrolio, mentre nelle stanze dei bottoni, aperte alla sinistra (governativa e non), avrebbe fatto breccia la fede indiscussa nelle partecipazioni statali. Gela sarebbe diventata Texasvalley; invece, come sappiamo, divenne Mafiaville. E subì un tale sconvolgimento – urbanistico, sociale, culturale – da trasformarsi in una grande casbah, a causa della speculazione fondiaria, ed in una piazza d’armi, con bande di mafia che si contendono i profitti dell’indotto della fabbrica. 

Sarebbe potuto andare diversamente? Certo. 

Ricordo un episodio oggi dimenticato, eppure emblematico. Siamo negli anni settanta. L’Anic oppone un netto rifiuto alla richiesta del comune di trasferire a Gela la sede legale a seguito della fusione con l’Anic Gela, la riscossione dell’imposta di famiglia per i suoi 2700 dipendenti resta a Milano, la sede degli organi decisori. 

Le relazioni fra la fabbrica e le istituzioni locali, tuttavia, non suscitano tensioni, scorrono su un canale informale e discreto. La politica delle commesse e degli appalti (servizi interni allo stabilimento – pulizia, trasporti, manutenzione, gestione mensa, insacco, sicurezza –  ed esterni, come la manutenzione e la costruzione di nuovi impianti, ecc.), non è mai oggetto di confronto. Gli interlocutori privilegiati (sindacato, politica, amministrazione comunale), sono scelti dal management sulla base delle convenienze. 

Una fetta sostanziosa di beni materiali finisce a persone e gruppi di interesse esterni all’economia locale: i benefici sono di fatto sottratti alla collettività locale. Si concentra nelle mani di pochi imprenditori un potere di controllo sugli appalti; prevale il sistema familistico nell’assegnazione rimproverato alla classe dirigente meridionale sin dall’unità d’Italia. Le ripercussioni si avranno nel campo sindacale, nella vita politica, e nel mondo imprenditoriale con opacità, connivenze, , infiltrazioni mafiose, che rafforzano, invece che cancellarlo, il tradizionale malcostume dello scambio di favori. 

La qualità dei servizi pubblici cittadini s’impoverisce anziché migliorare, a causa anche dell’enorme flusso migratorio proveniente dalle zone rurali circostanti: si registra un aumento demografico di ben 14 mila unità residenti nell’arco del decennio ’58-’68. Gela esercita una forte attrattiva: nel primo decennio dell’industria la città ospita una manodopera in larga parte non qualificata di oltre le settemila unità. Conclusa la fase di costruzione ed espansione della fabbrica, il calo delle occasioni di lavoro creerà un sottoproletariato amorfo ed instabile, poco integrato nel tessuto sociale della città. 

Le conseguenze sono sfruttamento del lavoro nero, peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie e abitative, delinquenza comune ed organizzata. E’ in questa fase – con il calo della domanda di manodopera e la nutrita immigrazione di boss provenienti dall’hinterland e dal palermitano – che si salda il rapporto fra l’impresa mafiosa e il sottoproletariato, estranei al vecchio contesto sociale gelese. 

La decisione di ubicare il quartiere residenziale dei dipendenti dell’Anic fuori dalla città, sebbene suggerita da un oggettivo stato di necessità, mostra impietosamente la diversità fra l’ambiente lindo e asettico della nuova città ai piedi della collina e le periferie deturpate dall’abuso edilizio, suscitando un comprensibile malanimo nella comunità estranea alla fabbrica. 

L’assorbimento dei modelli già tipici di un certo ambiente tradizionale nella gestione delle commesse, degli appalti e nelle relazioni con i cacicchi locali, e la sconcertante assenza dello Stato – la giustizia è affidata ad una piccola pretura senza magistrati e l’ordine pubblica a un commissariato senza poliziotti – spiegano abbondantemente Mafiaville. 

Si compie così un autentico capolavoro, nessuno degli obiettivi illustrati per giustificare la montagna di quattrini spesi a Gela è stato raggiunto. Hanno giocato la schedina del Totocalcio senza indovinare un solo punto. Tredici volte zero. Com’è possibile accettare il tradimento del patto sociale sottoscritto a Gela dallo Stato con il Mezzogiorno d’Italia?