PERSONAGGI. Il misterioso caso  del «Ragioniere Longo Giuseppe»

PERSONAGGI. Il misterioso caso  del «Ragioniere Longo Giuseppe»

“Sono il ragioniere Longo”, diceva.

E aggiungeva – dopo una breve pausa – “Il ragioniere Longo Giuseppe”, (nella foto) quasi volesse rassicurare l’interlocutore, che in realtà non gli aveva nemmeno posto la domanda. Eppure dal tono e dalla pausa ben cadenzata pareva suonare come quel “Bond, James Bond”, che impazzava nei cinema di tutto il mondo. Niente di più lontano, come testimoniava la faccia smarrita del “ragioniere Longo Giuseppe”…da dove? E chi lo sa, l’unica cosa certa è l’ormeggio del suo smarrimento a Gela. Dalla Libia, stante a quel che amava raccontare. Con un barchino, magari. Non regge né il barchino né la favola o la fervida immaginazione di un romanziere a corto di argomenti e di fatti. 

Cinquanta anni, forse quarantacinque portati male, statura media, bel viso, mite e stranito, gli occhi malinconici e distratti, stempiato, barba non curata, quella oggi in gran voga, e una dizione senza inflessioni dialettali, vocabolario accurato, modi cortesi, il ragioniere Longo si materializzò a Gela in un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi mezzo secolo fa, più o meno.

No, non era fuori di testa, e nemmeno uno scemo. La sua era una diversità lieve, ma indefinibile. Era uno che non stava con i piedi a terra, che sembrava infischiarsene di ciò che gli accadeva attorno. Pur conservando le buone maniere, non riusciva a dare importanza alle cose che diceva ed alle persone con cui scambiava qualche parola. Almeno era questa l’impressione che dava. Poi magari le cose stavano in altro modo. 

Scomparso lui, è scomparso il suo ricordo. Il ragioniere Longo non era popolare, e non faceva niente per diventarlo. E allora perché disseppellirne la memoria oggi, senza una motivazione che lo giustifichi? Non so dare una risposta. So solo che dopo avere dissepolto dall’oblio i bambini-adulti di Gela – Nino Cosabona e Luigi Fleccia – ho creduto che toccasse a lui. Per quei pochi che l’hanno conosciuto o, in qualche modo frequentato, è rimasto un personaggio ancora oggi indefinibile, con il quale confrontarsi ogni volta che capita qualcosa su cui recriminare. Insomma, non urlate contro il destino crudele, perché può capitare di peggio. La diversità stava nel fatto che il ragioniere Longo faceva di tutto per non rappresentarsi diverso o “reduce” di chissà quali sventure. La sua anomalia stava nel fatto che le condizioni materiali di vita, insopportabili per chiunque, erano da lui accettate. 

E così resta aperta la domanda: da dove spunta “il ragioniere Longo Giuseppe”? E’ colui che diceva di essere, un povero spiantato e scappato dalla Libia? Disponeva di una vita precedente? Era vittima o custode di un passato oscuro, inconfessabile? Un bugiardo matricolato o il testimone di una vicenda raccapricciante? Ogni domanda, anche la più fantasiosa, appare legittima quando si ha a che fare con uomini così. 

Esistono esseri umani che si escludono dal mondo in cui vivono, s’inventano un personaggio per rappresentarsi, e ad esso si affidano in tutto e per tutto, rimanendone alla fine prigionieri. Non lo fanno per nascondere un passato burrascoso o l’infamia compiuta altrove. E’ smarrirsi per scelta, sfuggire ad una realtà insopportabile, nuotare in un clima di vacuità. In definitiva non esistere per se stessi, esistere per gli altri quanto basta. 

Non credo affatto che il ragionier Longo Giuseppe avesse scheletri nell’armadio. Credo che semmai non avesse passato, non aspirasse ad alcun futuro, trascinasse con noncuranza un presente insondabile. 

Gela si accorse di lui quando apprese della sua tragica fine. Morì una notte avvolto dalle fiamme mentre riposava in un casotto abbandonato nei pressi della zona archeologica di Caposoprano. Come si siano sprigionate le fiamme e perché non sia riuscito a salvarsi non lo so, e probabilmente non lo sanno ancora nemmeno quelli che per mestiere – siamo alla fine degli anni Settanta – avrebbero avuto il compito di venire a capo della tragedia. Non c’è stato mai un “caso ragionier Longo” a Gela. 

I miei ricordi non sono vividi, l’avrò incontrato un paio di volte, mi pareva di cogliere una struggente malinconia, appena taciuta. Mostrava una pace interiore. Fingeva? E chi lo sa. Viveva nella provvisorietà in cui era immerso, con l’atteggiamento da nobile decaduto. Chi parlava con lui, si aspettava che prima o poi dicesse qualcosa sulla precedente vita. L’attesa non fu mai soddisfatta. 

Amava ripetere di venire dalla Libia. I dettagli sulla provenienza non destavano interesse, non svegliavano dal torpore alcun. Il ragioniere Longo Giuseppe, mantenendo una invidiabile tranquillità, attingeva ad altre risorse per farsi ascoltare.  “Conosco quattro lingue: l’arabo, l’inglese, il francese e l’italiano”, diceva compiaciuto. “Posso fare dei lavoretti, pulire i vetri, le scale. Basta che mi facciate mangiare”, specificava, con un sorriso mite sulle labbra. 

Nessuno si aspettava che il ragioniere avesse bisogno di fare lavoretti per campare. Le “quattro lingue” ed il contegno dignitoso non lasciavano affatto presagire che  fosse povero in canna. Il ragioniere Longo non “sembrava” affatto un poveraccio, non cercava benefattori, né chiedeva elemosina. Mai. Passò l’idea, insomma, che amasse starsene per conto proprio.

Il ragioniere faceva i suoi lavoretti con scrupolo e si accontentava di un piatto di pasta. Una volta gli fu proposta una intervista radiofonica a Radio Gela. La cosa lo entusiasmò, si mise a disposizione dei suoi “presunti” intervistatori. Non se ne fece niente. Era una burla. Immeritata. 

Dopo un po' ci si cominciò a chiedere come riuscisse a vestire con decoro, a parlare con proprietà di linguaggio, dato che non era nessuno. Il mistero di quell’uomo, sradicato, fu forse l’unica cosa che Gela riuscì a regalargli. E non fu affatto un bel regalo. Invece che alleviare quella solitudine siderale, la corredava di sospetti. 

La dignità non è affatto una qualità talvolta, ma una colpa. Piuttosto che favorire l’integrazione finì con il renderla difficile. Se si hanno i soldi, tanti soldi, si è riveriti, se si è poveri in canna, si ottiene “la carità” a patto che  allunghi la mano per chiedere l’elemosina. Non c’è una via di mezzo. Il povero dignitoso ed il ricco che non ostenta la ricchezza sono guardati con diffidenza. O non sono affatto guardati. 

Non vi fu modo di stabilire chi fosse veramente il ragioniere Longo Giuseppe e se la sua vita su questa terra fosse stata una via crucis. La naturale bonomia, la discrezione e i modi gentili avrebbero meritato certo maggiore considerazione.