Gela, la Scuola: ieri ed oggi

Gela, la Scuola: ieri ed oggi

Per chi, come me, ha affrontato l’esame di maturità con quattro prove scritte e due orali (materie umanistiche e materie scientifiche), e debuttato con i riferimenti del triennio in tutte le materie (1958), l’attuale contenzioso fra Ministero della Pubblica istruzione, che vuole reintrodurre la prova scritta (unica) dopo la “pausa” compassionevole per via della pandemia, sembra svolgersi nel pianeta Thlon, dove Borges collocò una delle elaborazioni più fortunate dei suoi labirinti. 

 

Cose da pazzi, insomma. La scuola è un percorso d’istruzione e formazione che non ha ancora trovato ancora alcuna alternativa, e per quanto se ne parli, spesso a vanvera, e con dispetto, essa resta l’unico nulla-osta per entrare nell’età matura, armati di uno scudo di competenze e di buonsenso, addestrato anch’esso sui banchi.

Allungare la pausa compassionevole di un altro anno, e di fatto derubricare la prova scritta a fastidiosa mosca nocchiera dell’istruzione di base, da togliere di mezzo prima o poi – meglio prima che poi – appare una enorme fesseria. Gli studenti scenderanno in piazza per reclamare l’abolizione della prova scritta, come da prassi consolidata, il Ministero cercherà di tenere il timone a dritta. E ci sarà sempre chi, nei Palazzi, strizzerà l’occhio, anzi tutti e due gli occhi, ai giovani angariati dagli esami (che non finiscono mai…), per incassare futuri consensi alle urne.

La prova d’italiano non serve a testare l’apprendimento della grammatica e del lessico, ma l’abitudine alla complessità, la capacità di ragionamento, la maturità dell’allievo. E se questo passaggio mette in circolo ansie ed adrenalina, anche di questo si ha bisogno per crescere, ché la vita non è tutta rose e fiori.

Siccome i presidi, seppure per motivi diversi, invitano il Ministero a ripensarci, e chiedono l’allungamento della pausa compassionevole, può accadere che le autorità scolastiche di governo, costrette a combattere su due fronti, facciano un passo di lato, magari inventandosi qualche espediente. Per intanto le prove rimangono due, una d’italiano, che propone tracce con tipologie diverse, e una seconda sulla materia scelta dall’istituto nel quale frequenta il candidato.

Naturalmente si possono trovare anche argomenti legittimi e di buonsenso per saltare gli scritti anche quest’anno, c’è chi ricorda le fatiche del biennio scolastico terremotato dalla pandemia: la DAD, le presenze ed assenze fra gli studenti ed i prof, la consuetudine al front desk digitale (dal quale è difficile tornare indietro), e la archiviazione della scrittura manuale, per amore (del digitale) e per forza (distanziamento). 

Potrebbe essere di qualche utilità dare un’occhiata al passato. Arrivai all’esame di maturità con il cuore in gola e nessuna medicina compassionevole, anzi con un ritiro fra le mura amiche di oltre un mese nel tentativo, disperato, di mettermi al passo con i riferimenti del triennio, che non erano stati trattati dai prof, ma elencati, per mettere a posto le carte.

Sono perciò arrivato alla meta in overdose, alle prese con angosce e paure esistenziali che mi avrebbero fatto precipitare in incubi ricorrenti per decine di anni. La maturità trasformata in incubo? Proprio così, nessuna enfasi né esagerazione: era un incubo. Così stavano le cose. 

L’accesso agli esami non era scontato. Era prevista la bocciatura preventiva. E commissari esterni, cui veniva affiancato un membro interno, un po’ il difensore civico dei candidati. Il buon curriculum scolastico, invece che avvantaggiarmi creò delle aspettative, sia a me che ai commissari d’esame, curiosi di conoscere la qualità didattica del Liceo classico Eschilo attraverso le prove dei candidati “ben presentati e motivati”. Deragliai, e avrebbe potuto essere un disastro. Invece che obbedire al buonsenso, obbedivo all’adrenalina.

Al commissario di geografia che mi chiese come avrei calcolato l’ora ad Oslo, risposi che avrei fatto ricorso all’orologio che portavo da sempre al polso e non me ne sarei privato nella penisola scandinava. Una spiritosata che non piacque al commissario, a ragione. 

Al commissario di Storia dell’arte che mi chiese di Raffaello, risposi che preferivo conversare su Antonello da Messina, provocando le sue legittime rimostranze allorché reiterai la volontà di non tenere conto del suo quesito. E potrei continuare così: una débacle. Mi salvò un articolo a mia firma apparso, non a caso, sul Giornale di Sicilia, dedicato alla permanenza di Gheddafi in Sicilia, sul quale il commissario d’italiano ebbe l’amabilità di intrattenermi, e una prova scritta d’italiano (Manzoni, Il 5 Maggio, la morte di Napoleone Bonaparte), giudicata meritevole di considerazione. 

Il Liceo classico Eschilo di Gela, è in questa istituzione scolastica che per cinque anni mi sono cimentato negli studi, imparato a leggere, scrivere e ragionare; è qui che sono diventato adulto, è qui che ho fatto le mie esperienze di vita (innamoramenti, delusioni, amicizie inossidabili, dispiaceri). Eppure quella era la scuola del meno meno, e non c’è ragione di rimpiangerla. Sarebbe tuttavia una grave omissione tacerne le eccellenze, la qualità dei prof: carismatici, competenti, solidi.

Del mio prof d’italiano ho già avuto modo di scrivere, era Nunzio Sciandrello. Voglio ricordare, con commozione, il prof di filosofia, Giuseppe Falconeri, che dietro una maschera burbera nascondeva un cuore d’oro, la prof di geografia, signora Papotto, che aveva adottato tutti i suoi studenti, la prof di matematica, Rocca Cacciatore, che pur facendomi dannare, non mi fece mai saltare le vacanze estive con una prova supplementare autunnale. 

Quei professori esponevano i loro argomenti ex cathedra, è vero, l’interrogazione era paludata e causa di tensione, come esporsi alle forche caudine. Quando i prof sfogliavano il registro, per scegliere l’agnello sacrificale, il clima trasudava ansia. 

Non tutti reggevano la tensione, ho perso per strada compagni in gamba ma inoperosi, che avrebbero avuto bisogno di essere “accuditi”, incoraggiati, motivati. Il voto, poi, era un’arte raffinata, in cui sadismo, intelligenza, e buoni propositi erano dosati sapientemente.

Era la scuola del sei meno meno, quella, il voto, con i più e i meno, era una cabala, ma aveva il suo lato positivo: allontanava il verdetto, lo lasciava in stand by lasciando al centro della scena quel cinque che avrebbe potuto cancellare le vacanze estive, rimandando ad ottobre. Passare dal cinque meno al sei meno meno era come percorrere il Nilo, scansando piene improvvise e interrimenti, o attraversare la Manica a nuoto con una tuta da palombaro. Una specie di ordalia, insomma.

Con il cinque meno iniziava il giro di boa che avrebbe condotto, con un po' di fortuna, al cinque pieno, da dove si raggiungevano le affollate praterie del cinque più; poi si faceva un piccolo balzo con un cinque più più per approdare al cinque e mezzo, che non era una tappa, ma una semitappa, dalla quale inerpicarsi verso il sei aggrappandosi ai rampini del sei meno meno e poi del sei meno.

La meta a questo punto sembrava vicina se riuscivi ad affondare i rampini sul sei, la sufficienza, ma non era scontato, tutt’altro; il rampino poteva spezzarsi durante la faticosa scalata e farti cadere nel baratro dei quattro alla prima distrazione. 

Quel che ancora oggi stupisce è che nessuno chiedesse conto e ragione di quel sei preceduto da due trattini, meno meno, e della distanza improbabile fra il sei meno meno e il cinque e mezzo. L’ipse dixit era accettato ed accettabile. Proprio così, accettabile: i numeri flettevano come il giunco quando passa la piena, e l’aritmetica si sposava con la flessibilità. Convergenze parallele, insomma.

Sapevamo che l’ancoraggio al cinque, con l’arredo dei meno e dei più,  autorizzava la traversata verso la sufficienza, era un messaggio consolatorio, una fune lanciata alla barca in avaria. Agganciare la cima, come vogliono le regole del mare, però poteva farti perdere la barca, e rifiutarla significava navigare a vista. 

Se si riusciva ad entrare in porto con dignità, senza ruffianate, imperdonabili a quel tempo, significava il sigillo: la promozione che ti eri guadagnato, regalandoti il diritto di compiacerti con te stesso. Tutto questo era vissuto in una collettività, non solo a livello individuale. E’ questa la cosa straordinaria. Ricordo con commozione la solidarietà che c’era fra compagni di scuola, i rapporti di amicizia, generalmente leali, ed affettuosi. 

Forse la memoria ha fatto sopravvivere ciò che merita di essere ricordato, ha cancellato le eccezioni e le ore cupe, ma se è così, vuol dire che i dispiaceri non sono stati così pesanti da lasciare tracce indelebili. E la nostalgia – nostalgia canaglia, naturalmente – accarezza ancora oggi la guancia come il sole d’inverno – regalandoci sogni ad occhi aperti. La foto della mia Terza liceo, corso C, Liceo classico Eschilo di Gela, ha ricevuto una cornice prestigiosa e il posto d’onore fra le immagini di casa mia. 

Gela, allora, non era un polo didattico, come oggi, ma il mio Liceo era una bandiera da sventolare con orgoglio, perché godeva di buona immagine e si diceva che da lì uscivano buoni professionisti e talenti. Esisteva, invero, anche il Liceo Musicale, in piedi grazie a Peppino Navarra, anima gentile, prof di violino e innamorato della musica. 

L’alternativa al Classico divenne, anni dopo, l’Istituto Tecnico per ragionieri e geometri, e successivamente una sezione staccata dell’Istituto magistrale nisseno. 

Che dirvi? Forse stravedo per il Classico Eschilo, sta di fatto che allora il prestigio di Gela nel campo dell’istruzione era alto, più di quanto non lo sia oggi, stranamente. Gela dispone oggi di un polo didattico di prim’ordine, ma la scuola è il parente povero, una specie di fastidioso orpello, che sembra procurare solo problemi. Nella vita della città, la scuola è come se non ci fosse: non partecipa e non è partecipata. 

Una disdetta, uno spreco, forse anche una infamia.