Eni ha cambiato pelle, tra investitori privati e leggi disattese

Eni ha cambiato pelle, tra investitori privati e leggi disattese

Una puntata recente di Report, benemerito programma di Rai 3, ci ha raccontato che i dirigenti dell’Eni e della Saipem sarebbero stati ricevuti frequentemente, anche troppo frequentemente, dal ministro della Transizione ecologica, Cingolani.

La qualcosa, di per sé, non può scandalizzare. L’Eni e la sua consociata, Saipem, sono il cuore pulsante dello Stato, la mano pubblica che guida e soccorre nell’immaginario collettivo. Una specie di azienda del mutuo soccorso infiltrata nel mondo dei cattivi, dove squali e balene nuotano e si scannano fra loro. Che ci sia perciò uno stretto collegamento fra il ministro e l’Eni è cosa buona e giusta. 

Ma stanno veramente così le cose? Gela ha vissuto sulla propria pelle la storia dell’Eni, i tempi in cui la mano pubblica sembrava avere un ruolo di guida vero, e quella privata, in posizione critica e vigile. Fra Eni e Montedison, guardando indietro, c’era un legittimo conflitto di interessi, una competizione utile al mercato, nella quale si misuravano i marpioni delle due parti. Enrico Mattei, re dei marpioni (che ci sta simpatico), segnò gli anni in cui l’Eni marciava come un treno su binari che Eni faceva costruire a suo uso e consumo. Scomparso Enrico Mattei, tragicamente, fu il capo della Montedison a capeggiare l’Eni. Si chiamava Eugenio Cefis. Il manager privato si fece pubblico. Come se un papa cattolico fosse divenuto primate della chiesa luterana o valdese, nesuno ebbe a dolersene. Questi miracoli li fa la politica; ai comuni mortali spetta il compito di capire ciò che sta succedendo. 

Quel cambio Mattei-Cefis segnò un passo indietro dell’Eni sul piano della iniziativa industriale nel settore dell’energia. Tolto di mezzo il marpione, la politica estera italiana fu scorporata dai compiti dell’Eni, o meglio restò all’Eni nella misura in cui l’Eni esprimeva il pensiero del management privato, il salotto  buono dell’industria e delle banche.

Altri tempi. L’Eni ha cambiato pelle, ancora una volta. Lo Stato s’è tenuto il trenta per cento delle azioni e il diritto alla cosiddetta golden share. Nella stanza dei bottoni c’è un manager nominato dal ministro dell’Economia, e non può trovarsi in minoranza, qualunque sia il peso di altri azionisti. Ma allora, non conviene investire in una azienda della quale non si ha il controllo?, ci si può chiedere legittimamente, visto che non si ha il diritto di guidare la baracca.

Chi crede che sia sconveniente, si sbaglia clamorosamente. L’azienda sulla quale investite, privatamente, vi fa dormire su quattro guanciali. E la golden share non c’entra. Il papa luterano, tanto per dire, può avvantaggiarsi del trattamento di favore, dei privilegi, che sono riservati alla chiesa cattolica, cioè alle partecipazioni statali. Invece che misurarsi in campo aperto, insomma, i privati imboscati nella mano pubblica, ottengono il trattamento privilegiato che viene assegnato ai componenti della stessa famiglia. Caro una, sanguis unus. Matrimonio indissolubile. 

Negli ultimi giorni abbiamo vissuto, con trepidazione, le oscillazioni, in ascesa, del gas russo e non, oscillazioni che hanno fatto un balzo in avanti poderoso, insieme al prezzo del petrolio: duplicati, triplicati, quadruplicati i prezzi, con le conseguenze che sappiamo sulle bollette. Il governo è orientato a far pagare il surplus di guadagni proveniente della speculazione sul gas (in misura modesta provocata dall’invasione dell’Ucraina da parte dei russi), per rimborsare parzialmente il maggior costo delle bollette. Non so che fine farà questa intenzione, sicuramente da approvare senza indugio. Il surplus è arrivato tra gli altri all’Eni, ed attraverso l’Eni ai privati che si sono “acccucciati” nella holding partecipata dallo Stato. 

Questo paradigma è fatto su misura per affrontare la questione di casa nostra, e cioè l’obbligo che l’Eni, e le sue partecipate, hanno di rimettere le cose a posto nella contrada Piana del Signore, dove è stata costruito uno degli stabilimenti più importanti dell’industria petrolchimica. Sono stati dismessi da anni gli impianti, e i terreni, le falde acquifere, i torrenti, il verde, sono una discarica a cielo aperto di “reperti” industriali.

C’è una legge che obbliga chi se ne va dopo avere lucrato, a rimettere le cose a posto, ed effettuare il ripristino dei luoghi. E Gela fa parte di quella piccola schiera di siti considerati ad alto rischio per le emissioni tossiche, l’uso del suolo (e sottosuolo), ed altro. C’è anche il Pnrr, il piano europeo (200 miliardi di euro), che dovrebbe servire anche alla transizione ecologica: tre carte che, messe insieme, dovrebbero assicurare a Gela un canale privilegiato, e un tavolo permanente di vigilanza e pianificazione degli interventi. Manco per idea. Le tre carte replicano quel giochetto con cui i furbastri nelle piazze dei paesi, fino a mezzo secolo fa, imbrogliavano i citrulli e gli ingenui. 

Se si chiede all’Eni – o meglio ai dirigenti delle sue partecipate (difficile tenere aggiornata la lista delle società che cambiano nome con la frequenza con cui ormai si cambia moglie, marito… e figli) – quando e se, a questo punto il “se” ci sta tutto, intende rispettare la legge, allargano le braccia. Fosse per loro, le ruspe arriverebbero domani mattina, senza indugio, Il fatto è che lo Stato, deve mettere la sua parte di risorse, e fino a quando non lo fa, si rimane in attesa che si decida a farlo. 

La terza carta ce l’ha in mano Gela, la municipalità. Che può fare mai un comune, sprovvisto di deterrenza, di forza contrattuale? Disarmato, rassegnato, anche un poco ignorante invero, e poco propenso ad esercitarsi in un braccio di ferro con i manager che viaggiano a bordo di executive. Al massimo ci si reca a Palermo per conferire con il capo della corrente di riferimento e riferirgli di avere sentito dire da qualche parte che si vuole installare un inceneritore a Piana del Signore, al servizio della Sicilia orientale. Insomma non conta assolutamente niente (se aggiungete: meno male, esercitate il legittimo diritto allo scetticismo).

Il gioco delle tre carte, quindi, a Gela non prevede la carta vincente. Non c’è imbroglio, insomma, c’è un equilibrio di interessi e di malizie, che realizza lo stallo. Siccome il gioco si fa sulla terra ferma e non in volo, lo stallo non prelude lo schianto. Nell’immediato, ovviamente. Perché mantenere così com’è, l’area occupata dagli impianti del petrolchimico dismesso, aggrava le conseguenze in misura esponenziale. 

Lo stallo non fa guadagnare nessuno? No, ci guadagna, eccome, l’azionariato privato infiltrato, anzi comodamente accucciato nella holding dell’Eni. Giusto come è avvenuto con il prezzo del gas: i dividendi divengono più lucrosi. 

Sigfrido Ranucci, dopo avere raccontato delle visite frequenti dei dirigenti Eni e Saipem durante la trattativa con l’Europa sul piano italiano di transizione ecologica, ha fatto una illazione. Pare che dentro l’Eni si sia installata Mediolanum, la banca vicina a Berlusconi. A stretto giro di posta è arrivata la smentita di Mediolanum: manco per sogno, vi siete sbagliati, noi non stiamo nell’Eni. IL discorso finisce qui, fino a un certo punto. E’ difficile, se non impossibile, scoprire chi sta dentro un pacchetto azionario così vasto come quello della holding Eni. 

Quel che risulta, carte alla mano, che ci sono investitori istituzionali, i quali a loro volta, rappresentano azionisti privati italiani e stranieri. E’ perciò come inseguire la propria ombra. Non sapremo mai chi sono i padroni occulti. Sappiamo che gli azionisti sono soddisfatti dei dividendi ricevuti. 

Sul periodico Economia del Corriere della Sera, leggo quanto segue: «… cosa meglio del libro soci può darci una visione completa «inside Eni»? Lì dentro, tra decine di migliaia di pagine, spunta per esempio la Zodial Equity Trading di Malta, 100 milioni investiti. Se ne sa ben poco.

Tra quel poco anche che avrebbe messo insieme un consistente pacchetto di azioni. Zodial sembra fuori dai circuiti classici degli investitori istituzionali ed è invece inserita in un arcipelago di fondi e sicav amministrati da Noel Vella, un passato a gestire hedge fund a Londra prima di rientrare nell’isola. All’acconto del dividendo 2016 si è presentata anche la Arab Banking Corporation (Abc) del Bahrain con l’1,1% del capitale. È la risposta alla domanda: che fine ha fatto la partecipazione della Libia? L’istituto, braccio commerciale della banca centrale libica (entrambi presieduti da Saddek El Kaber), è depositario dei titoli per conto del fondo sovrano Lybian Investment Authority». 

Il mercato finanziario è un mondo a parte. Oscuro di suo, grazie all’evoluzione tecnologica si è trasformato in un grande ologramma. Le persone, in carne ed ossa, non ci sono più, ed il denaro non viaggia, ma viene collocato miliardi di volte ogni frazione di secondo senza muoversi.

Chiunque può “lavare” e sciacquare, a suo piacimento, il denaro che s’è guadagnato, disonestamente, negli affari più loschi, che permettono alle grandi mafie della droga e delle armi, di incassare “dividendi” attraverso investitori istituzionali e non. Ma questa è un’altra storia. L’Eni sta nel mercato, e basta. Non gli si può addebitare tutto il male del mondo, anche se c’è una vocina dentro, che suggerisce qualche malandrinata. Ma le vocine vanno silenziate, perché quel che conta, sempre e comunque, è stare sempre dalla parte giusta; almeno, tentarci.