Editoriale/ Le notti bianche a Gela. I giovani in piazza, era ora!

Editoriale/ Le notti bianche a Gela. I giovani in piazza, era ora!

La futilità delle motivazioni all’origine dei fuochi che illuminano le notti corrive di Gela è il sintomo più grave di una società malata.

Il fenomeno non lo si può liquidare con un’alzata di spalle, un sorriso di compatimento o, se buoni cristiani, con una indulgenza plenaria, del tipo “signore, perdona loro perché non sanno quello che fanno”. I futili motivi sono un’aggravante anche per il codice penale.

Né guardarsi indietro e scoprire che è una vecchia piaga, mai risolta, rende meno periglioso e difficile il percorso di coloro che, deputati alla sicurezza ed all’amministrazione della giustizia, devono necessariamente adottare mezzi di repressione, coercizione e controllo di natura emergenziale. 

L’ampiezza del fenomeno induce al pessimismo, sia a causa dei ritardi con cui si sta affrontando, sia per il carattere endemico dello stesso. La necessità di adottare misure di emergenza suscita diffidenza, fa sorgere un giustificato scetticismo al ricordo che essa è declinata come permanenza. 

La metafora che mi viene in mente, sono gli ambulanti che montano il loro baracchino sulle stesse basole di suolo pubblico senza spostarsi per decenni, rappresentando in modo plateale au plein air l’abisso che c’è fra la norma e il suo rispetto, l’indulgenza plenaria e la generosa tolleranza, l’autorità e il suo inesistente carisma. 

Non vorrei che questa metafora indicasse una gerarchia del malaffare assegnandole una priorità; essa serve unicamente a mostrarci una deriva nell’educazione civica e nella derubricazione di fatto di tante piccole e grandi regole. Il fenomeno è il sintomo, penoso, dell’assenza del pensiero razionale, di strumenti alternativi alla minaccia, alla vendetta, al ricatto, alla prepotenza per regolare i conti.

Ad un torto, vero o presunto, si risponde dando alle fiamme l’auto del vicino, qualunque sia la rilevanza della questione. La scelta del mezzo, è sicuramente incoraggiata dal carattere sbrigativo del rimedio, scevro da pericoli e sufficiente a spaventare il destinatario.

E’ un biglietto di visita, la firma, un avviso con il quale il mittente fa sapere alla vittima con chi ha a che fare. E quando la vittima adotta lo stesso metodo, la questione si trasforma in faida, e la faida dà il via ad una escalation inarrestabile. Insomma, “hai a che fare con uno che ti può fare danno”. La questione principale, ragione del conflitto, sparisce, è sostituita dal mezzo con cui si “dialoga”. E a vincere è chi ha più polvere da sparo, o più benzina da consumare. 

Le notti bianche di Gela hanno dovuto scalare l’informazione locale ed assurgere al gradino più alto, di fenomeno, e tale quindi da meritare uno spazio sui giornali nazionali, perché godessero di un tavolo istituzionale, in sede prefettizia, per essere oggetto di attenzione.

L’ordine pubblico deve diventare un problema perché sia affrontato come tale; se una comunità non l’avverte come tale, la questione viene rimessa alla burocrazia, cioè alle decisioni di coloro che ogni giorno devono compilare il report sulla base della gerarchia delle segnalazioni.

L’auto data alle fiamme, riportata con un trafiletto, giorno dopo giorno, non manifesta la gravità del fenomeno, anzi, vista dalla prospettiva del cronista, la sua ripetitività, nel tempo è un fattore che ne derubrica l’entità.

Insomma, non fa notizia. Solo mettendo insieme i trafiletti e scoprendo il fenomeno si sensibilizza l’opinione pubblica, sempre che essa esiste. Confidarvi, infatti, non è consigliabile, è come richiamarsi alla coscienza di chi non ce l’ha, o comunque, non trova utile interrogarla per pigrizia e autostima. 

L’inerzia della comunità, questa volta, è stata spezzata dall’iniziativa degli studenti. I ragazzi di Gela hanno rinunciato ad una giornata scolastica per rappresentare la gravità del fenomeno e far sapere che loro ci sono e non sono contenti del fatto che, una volta lasciata la scuola, non avranno una vita felice, decidendo di restare nella città in cui sono nati.

Do per scontato, e tale non è, facendo torto al giustificato entusiasmo del Procuratore della Repubblica (i giovani protestano,  dove sono gli altri?), il salto culturale che la protesta sembra segnalare, assegnando all’evento il carattere di buona notizia.

La scuola, l’istruzione, la formazione è il piedistallo, la pietra angolare della società civile, quella che il mondo degli adulti  utilizza ai fini elettorali per rappresentarsi estranea, senza esserlo, alle combine politiche, al do ut des, criminalizzato e ancora più apprezzato, a quella matassa di discordia e concordia che si avviluppa attorno alle vicende partitiche. 

Se la scuola ha il compito di formare il cittadino, insieme alla famiglia, coloro che rappresentano le istituzioni hanno il dovere di costituire modelli di comportamento. E non mi riferisco alla corruttela, agli imbrogli ed alle altre pratiche di cui la cronaca è piena, ma alle modalità con le quali si esercita la delega ricevuta dagli elettori. 

Perché i giovani dovrebbero partecipare alla vita pubblica? Quali eventi, suggestioni, iniziative, interessi vengono sollecitati? Che cosa imparerebbero, per esempio, i giovani assistendo ad una seduta del consiglio comunale? Che cosa arriva loro del massimo consesso civico, della giunta municipale, delle decisioni sindacali? E che cosa apprendono nel corso di una tornata elettorale?

Durante le recenti elezioni politiche, Gela è diventata oggetto di scherno. Ha ratificato le nomine di senatori e deputati di un monarca lontano, alla stregua di un titolo nobiliare concesso sulla base di servigi prestati, non alla comunità nazionale, ma alla corona.

Una investitura feudale, dunque, salutata con favore dal sindaco di Gela.  Il titolo è andato anche a chi non aveva mai messo piede in parlamento per cinque anni, senza ovviamente rinunciare all’appannaggio. Nemmeno l’alibi delle buone pratiche per giustificare l’investitura. 

I giovani che protestano hanno avuto modo di riflettere sui doveri di un parlamentare, di un ministro, di un sindaco? Chi avrebbe dovuto insegnare ai ragazzi la partecipazione, la sua utilità, il bene prezioso della conoscenza? 

La scuola di Gela è un polo di eccellenza per la varietà della domanda formativa ma, come ho già avuto occasione di affermare, vive separata in casa, non partecipa alla vita cittadina. Non gli viene dato l’occasione di partecipare. O è gelosa della sua separatezza?

La questione è di grande rilievo: educare alla cittadinanza, alla conoscenza dei diritti e dei doveri, è il solo modo di cambiare pagina. L’esercizio della democrazia, tra l’altro, regala l’opportunità di selezionare risorse umane e dare un futuro ad una città, che tiene sottobanco le sue eccellenze, e subisce l’umiliante imposizione dei suoi rappresentanti nelle istituzioni. 

Credere che il pattugliamento notturno da parte delle forze dell’ordine, possa risolvere il problema, sarebbe come peccare di candore. Mitigherà il fenomeno, questo sì, per il tempo in cui la città è meglio controllata, ma non cambierà la disposizione mentale che consiglia di trattare con le minacce e le vendette la “mala parte” del professore che ha trattato male il figliolo, del vicino di casa che si è arrogato il diritto di parcheggiare l’auto dove gli pare, del malandrino che vuole punire chi ha risposto negativamente ad una richiesta di acquisto di un podere, e così via. 

E la mafia? Quella che chiede il pizzo, intimidisce, commette soprusi, e decide la sorte di una impresa, talvolta, di una municipalità? Non ha niente a che fare con gli artificieri della notte? Gela è stata “infiltrata” negli anni sessanta. Con le risorse pubbliche, l’industria, la crescita del reddito, sono arrivati i boss. Da Riesi, Palermo, Vittoria o altrove, ed hanno trovato terreno fertile.

Chi punisce il vicino di casa, bruciando la vettura, possiede quel che serve per arruolarsi alla malavita, ed entrare nella… disonorata società, per campare meglio. Non è scomparsa, è meno appariscente, forse. Rassodare il terreno, dunque, è essenziale. Gela, peraltro, vive un momento irripetibile di transizione.

Si gioca il suo futuro sull’immagine. Ha seppellito la sua storia antica, unica, per decenni. Si sta aprendo uno spiraglio, può mostrare i suoi tesori e le sue eccellenze. Deve meritarsi il passato, di cui non ha alcun merito.