l’Editoriale/ Marina, Rosalba, Alberto, Chiara e Monica: loro ce l’hanno fatta. E gli altri?

l’Editoriale/ Marina, Rosalba, Alberto, Chiara e Monica: loro ce l’hanno fatta. E gli altri?

Marina, Rosalba, Alberto, Chiara e Monica hanno in comune l’origine e la tenacia: sono tutti gelesi e hanno scalato nella loro disciplina tutti i gradini che servono per guadagnare l’eccellenza.

Di loro ho un breve curriculum, non so altro, ma quanto basta per sapere che ce l’hanno fatta. Non so quanto hanno lavorato per raggiungere la vetta, quali fatiche hanno sopportato, con che animo si sono gettati nell’impresa; se debbano il risultato ad un pizzico di fortuna, oppure ad un duro esercizio della volontà; se hanno sacrificato amicizie, affetti, amori sull’altare della carriera.

Di una cosa sono certo però: rappresentano per i loro coetanei un modello da imitare. Senza menare vanto dei successi, offrono la testimonianza che niente è impossibile, quando la volontà, la tenacia, l’impegno vengono impiegati per raggiungere il risultato, che all’origine è poco più di un sogno e poi, man mano, arriva e premia. 

I cinque giovani che ce l’hanno fatta sono solo una piccola avanguardia di un manipolo di uomini e donne risolute. Il rimpianto è giustificato. Ciò che si sono guadagnati, non sarà mai una risorsa per la comunità alla quale appartengono, perché le opportunità le hanno colte altrove, Gela non le offriva.

Non sorprende. Se ne sono andati per seguire le loro attitudini, ambizioni.  Chiara è una promessa nel campo dell’ingegneria aerospaziale; Rosalba è corrispondente a Mosca del quotidiano La Repubblica; Alberto è un affermato pianista; Monica è andata in Afghanistan e perso una gamba: è un eroe di guerra e la terza donna più veloce al mondo in ambito paralimpico; Marina, infine, è una ricercatrice, oncologa, e lavora a Chicago, dove è molto apprezzata. 

Spendo qualche parola in più per Monica perché, a differenza degli altri, arruolandosi nell’esercito e andando, volontaria, in Afghanistan, non è stata aiutata dalla fortuna. Quando ha perso la gamba, infatti, non sé persa d’animo, e ha trovato l’eccellenza nell’atletica; la reazione emoziona, suscita orgoglio fra la gente di Gela.

Quanti giovani si piangono addosso per non essere stati aiutati dalla fortuna? Quanti lamentano di non avere avuto una spintarella, o si sono rammaricati di essere nati in una famiglia che non poteva permettersi la permanenza fuori sede per attendere agli studi universitari? 

Monica ha conquistato l’eccellenza dopo essere stata punita dalla sorte; invece di piangersi addosso si è messa alla prova ed ha trovato ciò cui agognava. Non è facile, certamente. Non si ha l’obbligo di essere eroi, né in guerra, né in tempo di pace. Ma sapere che niente è precluso, se si hanno volontà e tenacia, è una gran cosa. Monica non ha gareggiato solo per sé, lo ha fatto anche per i tanti ragazzi che hanno conosciuto la sofferenza e la cattiva sorte. 

Quando insegnavo ai ragazzi già maturi mi piaceva far sapere come la pensavo sulle cose della vita. Va bene i comandamenti, le regole, le leggi, la buona creanza e i buoni sentimenti, dicevo, ma c’è qualcosa che li somma tutti: è la voglia di esserci sempre.

Esserci nel senso di decidere, senza farsi trascinare; esserci nel senso di sentirsi persona: non subire niente, nel bene o nel male, grazie alla competenza, l’esperienza, la capacità di comprensione, che va fatto e non va fatto. Per esserci, bisogna sapere, non c’è che fare, l’ostacolo non può essere raggirato. 

Si chiama etica della responsabilità, che significa tante cose insieme. Chi sceglie bene nel momento giusto grazie a ciò che sa, deve meritatamente concedersi il piacere di complimentarsi con se stesso, perché ha dato il meglio; se, all’incontrario, sceglie male, e lo fa in piena coscienza, non può prendersela con nessuno, non è obbligato a abdicare a se stesso. Così, si cresce, dicevo, senza salire in cattedra, ma parlando anche a me stesso, non solo ai ragazzi che mi ascoltavano.

Non m’inventavo niente, invero: i greci, che a Gela erano di casa, come sappiamo, avevano in definitiva la stessa legge, non scritta, da rispettare: pàthei màtos; le batoste del destino, il male e la sofferenza, sono strumenti per imparare. A questa regola di vita, che ci obbliga a dare il meglio sempre e comunque, ne aggiungo un'altra, che mette al centro il destino, al quale ricorriamo spesso per nascondere sotto il tappeto i nostri errori e le piccole malandrinerie.

La dispersione delle colpe è un’antica consuetudine. Il destino, ha scritto qualcuno, è quell’istante in cui l’uomo sa per sempre chi è: si è soppraffatti dal pensiero della nostra vulnerabilità, e ci rifugiamo dietro una maschera e una immagine, che tradisce la nostra vera natura.

Che cosa e quanto debbono i nostri meravigliosi ragazzi a se stessi, alle virtù che hanno alimentato e fatto crescere, e quanto alla comunità in cui sono vissuti? Tutto e niente, rispondo. Hanno respirato la stessa aria, uscendo di casa, degli altri coetanei; hanno avuto, tutto sommato, un’istruzione mediamente simile ( le eccezioni esistono, eccome), si sono confrontati con altri giovani nella quotidianità, e perciò di qualcosa sono in debito, ma il resto appartiene a loro. Ed è gran parte della vita che si sono costruita. 

Pongo lo stesso interrogativo alla città. Che cosa ha fatto per questi ragazzi, quali opportunità ha saputo mettere in campo? La risposta, appartiene a chi legge. Credo, per quanto mi riguarda, che Gela non abbia investito sulla conoscenza e sulla scuola, non possa vantare alcun credito.

La popolazione scolastica di Gela offre una gamma straordinaria di opportunità, ma la scuola è rimasta fuori da ogni circuito: culturale, formativo, professionale. I corsi universitari, per ricordare un episodio, istituiti a Gela con successo, sono stati cestinati e a loro posto sono arrivate le fabbriche dei pezzi di carta, i laureifici, che seminano vento e raccolgono tempesta, a prezzo tutt’altro che modico. Nascono i dottori del nulla, accanto alle eccellenze.

Non dimentichiamocelo. Non sarà certo attraverso questi presidi del profitto, che Gela potrà guadagnarsi la competenza nei luoghi in cui si governa. E’ illusorio aspettarsi di più e di meglio, se a conclusione dell’itinerario di studi, i ragazzi se ne vanno dove possono apprendere e trovare lavoro, in Italia e all’estero, e resta a casa chi non ha ambizioni né mezzi. 

L’industria primaria, che ha fatto la storia recente a Gela, ha conosciuto l’inevitabile obsolescenza, suscitando sentimenti contraddittori: c’è chi la rimpiange per i posti di lavoro perduti e chi tira un sospiro di sollievo per il disastro ambientale provocato.

L’Eni ha scelto la strada “green”, e nel mondo l’energia pulita è balzata al primo posto nella geopolitica internazionale; idrogeno, acqua, sole, vento, riciclo ecc: il futuro è tutto qui. Formare, istruire, creare competenze ad ogni livello, in una città che possiede la “materia prima” (sole, vento, territorio pianeggiante, ecc.), dovrebbe essere un menù da servire su un piatto d’argento, laddove la questione è vissuta, non solo discussa. Il cantiere del fotovoltaico è rimasto nel libro dei sogni. 

Chi l’ha detto che la fine della storia è iscritta nei suoi inizi? Non lo so, ma costui aveva capito l’essenziale, questo è indubbio.