Il mondo dell’arte è cambiato. Forse una volta era più selettivo, più duro, più vero. Basti pensare ai grandi cantautori di un tempo che hanno lasciato un’eredità di valori e ideali che – malgrado tutti gli sforzi – in pochissimi sono forse riusciti a pareggiare.

Il panorama della canzone italiana vive un periodo difficile, costellato negli ultimi tempi da imponenti lutti. L’arte è universale ma oggi i segni della vera canzone come del vero teatro purtroppo sembrano latitare. Per non parlare poi della danza. Da ormai diversi anni siamo bombardati da una tv spazzatura che ha fatto del ballo un imbarazzante teatrino di cui vergognarsi. Raccontare storie di chi fa dell’arte la propria ragione di vita, con passione e volontà, è uno schiaffo in faccia a tutto ciò. E’ anche il caso di Emanuela Ventura (nella foto), classe 1986, giovane danzatrice gelese che all’età di 14 anni lascia la sua famiglia per inseguire un sogno che la porta dritta all’Accademia Nazionale di Danza di Roma. Una carriera accademica costellata nel 2006 da un diploma di I livello, nel 2010 dalla laurea di II livello del biennio specialistico per la formazione dei docenti in discipline coreutiche indirizzo danza contemporanea, con una tesi la cui votazione fu 105/110. Dal 2006 al 2008 si forma in diverse scuole di Londra tra cui “Laban Dance Center” e “Pine Apple”. Nel 2012 le viene rilasciato un attestato di partecipazione come attrice all’ActionLab intensivo con il regista e attore Sergio Rubini, e nel 2013 conclude il secondo anno dell’Accademia di recitazione “Acting Training” di Beatrice Barocco.


«Ai miei primi saggi di danza – dice Emanuela – mio padre non veniva mai. Mia madre invece era già a conoscenza della mia passione, ballavo nel salotto di casa e il mio riscaldamento era al ritmo del Bolero di Maurice Ravel. Fu al primo spettacolo preparato con il Cesma, L’isola che non c’è, nei panni di Trilly, che mio padre – spinto dalle voci che giravano sul mio conto circa la mia bravura – venne ad assistere. Un momento che non potrò mai dimenticare, non solo per l’amore che mi lega a lui ma per la stima nei confronti della sua vena artistica da musicista che ho ereditato, però verso un altro ramo».
Sarà forse l’innocenza dell’essere adolescente che ci fa avere più coraggio nonostante l’età e le poche esperienze, ma proprio a 14 anni Emanuela si sentiva una roccia, in grado di spaccare tutto e avere il mondo in tasca. Già da piccola aveva capito che l’insegnamento non è per tutti e che essere un buon educatore va al di là dell’avere il titolo che serve.


«Ricordo di un’insegnante in Accademia che un giorno disse a mia madre che ero dotata, avevo una “bella testa” ma un seno che faceva schifo. Le mie compagne erano tutte delle tavole da surf, da me qualcosa in più si notava. Se non fossi stata forte quanto bastava e non avessi avuto il sostegno di mia madre, sarei crollata sotto il giudizio di quella maestra che avrebbe potuto marchiare a fuoco la vita di una bambina ancora in formazione. Adesso, quando rivedo i video di quei tempi, riconosco una bellezza che all’epoca non vedevo e della quale non godevo perché condizionata da negative pressioni. La cosa curiosa è che poi, alla fine, quella stessa insegnante il seno se l’è pure rifatto».
Elementi importanti per Emanuela, dunque, sono l’insegnamento e l’educazione. Ogni mese si dedica ad uno stage di laboratorio coreografico e teatro fisico a Palma di Montechiaro, a Sarzana dirige un altro laboratorio di danza contemporanea e poi a Roma e in Toscana si dedica all’insegnamento di danza classica e di ginnastica dolce posturale pilates. Sono tante le esperienze lavorative tra compagnie di danza, esperienze teatrali e un film.


«L’esperienza più bella fino ad ora l’ho avuta con la coreografa e architetto Lucia Latour che mi ha insegnato a ricercare. Ognuno danza quello che è, solo attraverso la ricerca trovi te stesso e il tuo modo di danzare. Ricordo la sua severità nei miei riguardi ma nonostante tutto non ho mai abbandonato la sala e le sue lezioni. Solo alla fine ho compreso che voleva lasciarmi un segno, perché credeva nelle mie potenzialità. Tutto ciò che avevo appreso in Accademia, con lei veniva completamente stravolto. Secondo le sue teorie noi non siamo bipedi, in realtà possiamo essere qualsiasi cosa. Improvvisavamo e ricercavamo per ore intere fino a che non eravamo sfiniti, ma lì, in quell’attimo di stanchezza, lì stava la vera danza. Il corpo ci parla senza dargli il triplo dell’energia che non serve, prende la spinta dal pavimento, tutte le leggi della fisica sono applicabili al nostro corpo che ha bisogno delle leve naturali per danzare».


La sua laurea e la “prima” dello spettacolo di Lucia Latour sono stati i momenti più emozionanti fino ad ora, e adesso punta ad un nuovo progetto: l’apertura di un liceo coreutico qui a Gela. Per Emanuela sarebbe un punto di svolta nella sua carriera ma anche per la sua città dalla quale è assente da più di dieci anni.
«Sono tornata qui perché ho bisogno di sentire accanto la mia famiglia – conclude – e perché ho in testa questo ambizioso progetto. Al momento collaboro con il coreografo Gabriele Izzia e proponiamo dei laboratori creativi aperti a chiunque volesse. I tempi saranno lunghi, lo so, ma non voglio rinunciare».