Dopo 11 anni di profondo “vissuto” all’interno della realtà ecclesiale e tante esperienze di animazione parrocchiale, risulta davvero assurdo l’atteggiamento di certi presbiteri che, oltre a non aver mai pronunciato la parola “grazie”, continuano ancora oggi a girarsi dall’altra parte senza un minimo accenno di saluto nei miei riguardi.
Un fatto insolito, ma chiaro e, per certi versi, comprensibile. Forse le mie lotte contro l’omofobia, il carrierismo, il potere e la ricchezza di alcuni “piani alti” della gerarchia moderna hanno finito per urtare la sensibilità di coloro che dovevano primeggiare a tutti i costi in un sistema già pesantemente additato dal popolo gelese. E’ il principio della relazione negata, dove i social network condizionano stili e modi di agire e presentano una realtà distorta, amplificata e imbevuta di marcato narcisismo. Una tristezza dentro altrettante tristezze, scandite da immagini che, invece di educare al sacro, pongono un sarcastico accento sulle rimpatriate spettacolari, accanto al “don” che sfila in processione e si compiace di piccole e grandi mediocrità. Una dimensione virtuale, nella quale i sentimenti sono spesso cumuli di velata ipocrisia e non raccontano nulla, se non uno spiccato senso d’onnipotenza che, a rigor di logica dovrebbe appartenere solo a Dio.
Io, in tanti anni ho coltivato una sola parola per i miei amici sacerdoti: amore. Vero, ho amato questi miei fratelli, ne ho esaltato doti, qualità e limiti anche ai tempi della mia collaborazione con il settimanale cattolico Settegiorni. Tenerezza ma anche critiche aspre, derivanti da incomprensioni non del tutto risolte. Oppure dolcezza. In sostanza, sono stato colpevole di aver manifestato troppo affetto. Bene. Tra i tanti miei peccati, questo è l’unico del quale non sono pentito. Perché, in fondo, non devo pentirmi di aver avuto accanto formatori di alto livello e con un linguaggio teologico impeccabile. Inoltre, quando frequento una persona, mi concentro sulle abilità sociali e cognitive. Chi mi conosce, lo sa. La bellezza esteriore? Quella non mi ha mai sfiorato e non l’ho messa mai al primo posto, né la mia, né quella di chi cercava di consigliarmi con la preghiera e le buone intenzioni. Le chiacchiere di cortile, per fortuna, le ho sempre ignorate.
Tuttavia, un prete rimane sempre un prete, anche se possiede i lineamenti di Leonardo Di Caprio o Raoul Bova. Ma per un fratello sei pronto anche a farti ammazzare, e su ciò ho basato tutta la mia esistenza di operatore. E poi, un fratello non lo giudichi, non lo emargini, neppure di fronte alle più grandi difficoltà. Neppure se è disabile, omosessuale, abbandonato in strada o in carcere. Lo accetti, perché è Cristo che te lo chiede, dall’alto di una croce. E allora, lì tocchi con mano il comandamento dell’amore e dell’amicizia sincera e spontanea. Lo ripeto: il saluto è terapeutico, il saluto è importante.
Anche in mezzo ad anni di silenzio, ostilità o malumori. L’esempio più eclatante lo mostrano pure i cani: quando abbaiano, vogliono comunicare la loro presenza, dire che esistono. Quindi, un saluto non costa nulla ed è più potente di Facebook, poiché migliora il nostro quotidiano, spesso privo di gesti e parole e circondato da soggetti troppo indaffarati ad ottenere consensi banali e ripetitivi. Un sorriso e una stretta di mano possono guarire molte ferite dell’anima. E ora, al di là di qualunque impressione o commento, vi saluto amici preti, con la speranza di essere capito, sostenuto e ricambiato.
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