Caponetti (Antiracket): «Presto renderemo pubblici i nostri bilanci»

Il 10 novembre 1992 fu assassinato a Gela il commerciante Gaetano Giordano che tre anni prima aveva denunciato i suoi estortori.

Secondo alcune testimonianze dei collaboratori di giustizia la sua morte fu decisa a seguito di selezione – avvenuta tramite sorteggio – tra i pochissimi che avevano avuto già il coraggio di ribellarsi al pizzo: tra questi ricordiamo Miceli, Ardenti e Assaro. Erano tempi in cui la mafia faceva man bassa di denaro tramite le estorsioni; erano i tempi della mafia sanguinaria, a Gela più che altrove.

 

Tante cose sono cambiate da allora: dopo un lungo periodo di smarrimento che ha attraversato istituzioni e società civile, nel 2005 nasce in città l’associazione Fai antiracket–antiusura  “G.Giordano” presieduta dall’imprenditore Renzo Caponetti, sulla falsariga del comitato Addiopizzo nato nel capoluogo siciliano nell’estate 2004 quando il 29 giugno i palermitani si risvegliano con la città tappezzata da piccoli adesivi listati a lutto recanti la scritta: “Un intero popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”.

 

Il 10 novembre scorso l’antiracket gelese il cui manifesto è “Non sei più solo” ha organizzato la giornata commemorativa per il venticinquesimo anno dalla morte di Gaetano Giordano.

 

– Presidente Caponetti, cosa è cambiato dal 2005 ad oggi?

 «E’ un altro mondo, c’è stato un vero e proprio risveglio delle coscienze.  E ciò è potuto avvenire anche grazie al nostro aiuto in favore delle vittime di estorsione, creando loro attorno una rete di sicurezza e solidarietà.  Alla fine degli anni novanta commercianti e imprenditori gelesi pagavano il pizzo senza eccezioni, nella forma di contributo mensile alle cosche.  Oggi il fenomeno esiste ancora ma non è più così pervasivo. Dal 2005 ad oggi abbiamo accompagnato presso le forze dell’ordine a sporgere denunce di taglieggiamenti circa 180 persone distribuite nel nostro comprensorio che comprende non solo Gela ma anche Niscemi, Licata, Palma di Montechiaro, Riesi e Mazzarino.  Dodici solo nel 2016, con una media di una al mese e registriamo più o meno gli stessi numeri nel 2017.  Insomma una bella batosta l’abbiamo data alla mafia ma non abbiamo ancora vinto la guerra, bisogna lavorare ancora più intensamente».

 

–  A proposito di lunga strada ancora da percorrere, lei ricollega i numerosi episodi incendiari che si stanno susseguendo con regolarità in città ad un fenomeno intimidatorio mafioso?

«Assolutamente no. Parafrasando il pentito Celona interrogato sul punto: “gli incendi di macchine nulla hanno a che vedere con la mafia, sono questione di fumo e fimmine”. Anche se molti di coloro che sono stati condannati per reati estorsivi ad oggi sono fuori dal carcere per aver finito di scontare la pena. Per questo occorre non abbassare la guardia proprio in questo momento».

 

– Quanti sono gli associati all’antiracket? Quanti di essi hanno denunciato episodi di estorsione? E quanti tra i denuncianti hanno beneficiato delle somme elargite ai taglieggiati dal Fondo di solidarietà di cui alla legge n. 44/1999, col fine di far ripartire le loro attività?

«Gli associati ad oggi sono circa 180, tra di essi i denuncianti sono invece circa 120 perché non tutti gli associati sono stati vittime di estorsione, né tutte le vittime sono associate, dato che alcuni vivono e lavorano fuori. Per quanto riguarda il numero dei ristorati, qui in sede non teniamo un elenco degli stessi ma saranno più o meno 70. In prefettura avranno numeri più precisi».

 

– Ma negli anni ci sono stati episodi di defezioni o di esclusione di soci?

«Guardi, noi siamo un direttivo compatto e affiatato ma c’è stato pure chi non ha condiviso i nostri principi e quindi automaticamente si è autoescluso. Ma coloro che sono usciti dall’associazione si possono contare sulle dita di una mano. Poi ci sono stati anche degli episodi spiacevoli: qualcuno dovette essere cacciato dall’associazione perché coinvolto in attività criminale, sebbene non mafiosa.  Il comitato direttivo, formato da 11 membri, riconfermato negli anni, tranne qualche parziale cambio che ha coinvolto circa 5 membri, si riunisce mensilmente e decide le attività dell’associazione. L’assemblea dei soci invece è convocata 2/3 volte l’anno e una di queste occasioni è dedicata all’approvazione del bilancio».

 

– Ecco, a proposito di bilanci: se ci capita di aprire il sito di Addiopizzo troviamo in bell’evidenza rendiconti e bilanci relativi almeno all’ultimo quinquennio. Se invece apriamo il vostro sito di FAI antiracket, dei bilanci non se ne vede l’ombra. Lei non pensa che la lotta alla mafia passi anche attraverso la trasparenza dell’operato dell’antimafia?

«Certo, è proprio così, tant’è che a fine ottobre tutti i presidenti locali dell’antiracket e in particolare io nella qualità di presidente regionale, abbiamo ricevuto da parte del  Presidente nazionale dell’associazione Tano Grasso una circolare recante oggetto: “Operazione trasparenza”  che mira alla raccolta di numerosi dati, tra cui i bilanci, da pubblicare sul nostro sito internet».

 

– Bene, ma intanto può farci visionare il bilancio 2016? Quali sono state le entrate e le uscite dell’anno?

«Io non so se posso farlo visionare per la privacy ed in ogni caso non ce l’ho qui. Non ricordo di preciso i numeri che riportava ma si tratta di somme di lieve entità. Noi qui siamo tutti volontari. Chi me lo faceva fare di vivere una vita sacrificata come questa a scapito della mia stessa attività imprenditoriale? Questa è una missione. Le entrate ci derivano dalla quota associativa annuale di circa 100 euro più un finanziamento regionale di circa 12.000/15000 euro l’anno, oltre ai finanziamenti ricavabili dai progetti Pon e Por. Dal 2005 ad oggi abbiamo però beneficiato del solo Pon Sicurezza 2013-2016 grazie al quale è stato ristrutturato palazzo Guttilla che è la nostra sede.  Il palazzo è di proprietà comunale e per l’utilizzo non paghiamo alcun canone: allora fu una concessione del sindaco Crocetta, le amministrazioni successive non ci hanno mai chiesto nulla».

 

– A proposito di Crocetta, si può affermare che l’antiracket a Gela nasce sotto la stella dell’antimafia rampante di Crocetta?

«Sì certo, allora il sindaco di Gela era Crocetta ma ricordiamoci che la Fai è stata fondata da Tano Grasso a Capo d’Orlando nel lontano 1990».

 

– Ma adesso che la parola antimafia ha perso tutto il significato simbolico che ha avuto negli ultimi 10 anni riducendosi spesso ad antimafia di maniera o di facciata, complici anche i misfatti di Montante – simbolo dell’antimafia in Confindustria – e la delusione per l’operato di Crocetta in Regione, come si colloca l’antiracket che dell’antimafia è una ramificazione?

«Noi siamo apartitici e apolitici».

 

– Scusi, che c’entra l’antimafia con la politica?

«Lei mi sta chiedendo se ho rapporti con Crocetta e Montante? Io non sono legato ad alcun politico. Conosco sia Crocetta che Montante anche perché abbiamo firmato Protocolli d’intesa sia con Confindustria che col Comune. Noi continueremo a svolgere il nostro lavoro che riteniamo quanto mai utile alla luce della diversificazione delle attività illecite della mafia attuale».

 

– No, perché come ben lei saprà, il commissario nazionale antiracket Cuttaja ha negli ultimi mesi stimolato da parte dei prefetti controlli nelle associazioni antiracket al fine di vagliarne la specifica capacità operativa, affinché non  si riduca a costituzioni di parti civili e ad accaparramento di finanziamenti pubblici. A seguito di questi controlli, cinque associazioni che operavano nel palermitano sono state sciolte perché in odor di mafia o sostanzialmente inattive…

«La preoccupazione di Cuttaja è l’inattività nella specifica mission che hanno queste associazioni e che giustifica la loro stessa esistenza, che è quella di spingere gli imprenditori taglieggiati alla denuncia e accompagnarli in questo percorso. Come già le ho detto, noi sia nel 2016 che nel 2017 ne abbiamo supportati circa 12 per ciascun anno».

 

– E invece quante costituzioni di parte civile conta l’antiracket di Gela nel 2017? E nel 2016?

«Nel 2016 sono circa 14; i dati del 2017 non li ho al momento disponibili. Ma lei lo sa che nessuna delle 70 associazioni FAI antiracket presenti in Italia di cui solo 30-35 in Sicilia ha mai ricevuto risarcimenti a seguito delle condanne dei mafiosi? Vengono liquidate solo le spese legali».

 

– E allora perché ci sono stati casi di associazioni che hanno fissato sedi legali e operative fittizie per poter intervenire nei processi insistenti su quei territori? Quale interesse specifico le spingeva?

«Forse la ragione principale potrebbe ricercarsi nella circostanza per cui le costituzioni di parti civili realizzano una delle condizioni per l’accesso ai fondi Pon e Por: quante più se ne accumulano tanto più probabile diventa il finanziamento.  E poi, certo, gli avvocati nominati dall’associazione – in persona del presidente – per la costituzione di parte civile vengono regolarmente retribuiti ma attraverso il Fondo di Rotazione e a seguito di istanza in Prefettura».

 

Falcone diceva che per trovare la mafia bisogna seguire la pista dei soldi; forse si potrebbe dire la stessa cosa per l’antimafia. Ci vorrebbe una legge che fissi dei criteri oggettivi per l’erogazione dei fondi pubblici giacché la discrezionalità ad altro non serve se non a costruire e mantenere cerchi magici. In attesa della pubblicazione sul sito dei bilanci dell’associazione, non resta che constatare che il problema è prima di tutto antropologico e nessuna regola imposta dall’alto potrà veramente battezzare la cultura della legalità e della trasparenza, quali pilastri dell’antimafia.