Ugo Randazzo, figlio del suo tempo e della Gela che non c’è più

Ugo Randazzo, figlio del suo tempo e della Gela che non c’è più

Siamo tutti figli del nostro tempo, e del luogo in cui abbiamo la ventura di nascere: è quello che chiamiamo impropriamente destino.

Ma ci sono uomini, che per carattere, attitudine, comportamenti, lo sono in modo esemplare, come Ugo Randazzo, libraio ed edicolante di Gela, scomparso il mese scorso. Se volessi offrire una metafora di quanto sostengo, dovrei disegnare un punto al centro di un cerchio con il suo nome e la sua libreria, dentro la città in cui visse. Ugo è stato, e lo è ancora in qualche modo, il riferimento – per costume, linguaggio, interessi – di una buona fetta di uomini e donne che dagli anni sessanta, e per quasi quaranta anni, hanno vissuto intensamente – è questa la discriminante con il resto della gente – la loro comunità, nella buona e nella cattiva sorte. 

Non so se ciò si traduca in un giudizio positivo sul libraio Ugo, ma è un fatto incontrovertibile che il libraio e fine conversatore Ugo Randazzo abbia rappresentato magnificamente la sua gente e, quelli come me che si sentivano intimamente coinvolti nelle vicende che scorrevano sotto i loro occhi e nelle quale erano coinvolti, direttamente o meno. Sono tanti che, come me, non hanno mai fatto passare un solo giorno senza una incursione nella sua edicola-libreria e conversato con lui. Era una consuetudine irrinunciabile, una liturgia leggiadra, una sorta di dipendenza alla quale non riuscivamo, né volevamo, sottrarci. Mettevano da parte le urgenze, perfino gli affetti familiari, ogni priorità, pur di passare in libreria e confrontarci con lui sulle cose del giorno. 

Quando ho saputo che ci aveva lasciati, mi sono chiesto per quale ragione la consuetudine fosse divenuta, nel tempo, bisogno, e perché – nonostante la mia assenza più che trentennale da Gela, abbia conservato di lui un ricordo così presente nelle mie giornate, ormai tante, lontano da Gela. Provo a darmi una spiegazione. Ugo rappresentò la sua città com’era, eppure meglio di quanto essa fosse, senza gli orpelli dalla sua mitica storia. Le persone, i fatti, gli eventi, ogni cosa, visti dalla sua libreria, all’interno di quella confortevole nicchia, acquistava una prospettiva velata da un sacro rispetto per le debolezze degli uomini.

Niente verdetti, soprattutto condanne capitali, qualunque fosse l’orribilità dei fatti e i peccati dei personaggi. Non era buonismo pregiudiziale (e pregiudizievole), né consolatorio strumento di redenzione, del quale avremmo guadagnato tutti il nostro dividendo per il fatto, diciamo così, di far parte della stessa grande famiglia, ma un prezioso filtro culturale, creato dalla buona educazione, l’esperienza, la saggia cautela di chi osserva un orizzonte incerto – bello a vedersi, ma inconosciuto e quindi non giudicabile in via definitiva – ed una sorta di ancoraggio al presente ineludibile, da leggere e rileggere, magari vestito d’ironia, senza il sussiego di chi si sente immune da ogni contaminazione. 

Ugo non ha mai rifiutato di sentirsi uno di noi, di quelli che fuori dalla libreria aspiravamo ad un ruolo, all’ascolto attento, all’autorevolezza, e combattevamo le nostre battaglie, giuste o sbagliate, parlando e scrivendo dai pulpiti cui ci eravamo arrampicati. Ugo non era un grimpeur, uno scalatore, e pretendeva che non lo fossimo pure noi, che non sgomitassimo, perciò si augurava che prevalessero le nostre buone intenzioni, cercando di ammaestrarci, ma senza volere addomesticarci. Le nostre intenzioni, insomma, non erano le intenzioni da rispettare. Un maestro anche nei silenzi. Sorrideva ed ascoltava senza stancarsi mai, senza mai accusare segni d’insofferenza. 

Ti faceva capire con gli occhi che non perdeva una virgola di quanto dicevi. Forse era questo il segreto della sua empatia: gli uomini silenziosi hanno tanto da dire e piacciono perché lasciano credere che stanno a sentire gli altri. Dio solo sa quanto avessimo bisogno, tutti quanti, di trovare qualcuno che ci ascoltasse senza necessariamente offrirci una patetica spalla su cui piangere. 

C’è chi non ha bisogno di salire su una cattedra per insegnare, di esercitare una carica pubblica per avere autorità, di non fare la voce grossa per essere ascoltato, di avere il suo stesso sangue per essere amato, di possedere meriti speciali per ottenere il tuo rispetto. Ad Ugo non serviva nulla di tutto questo per starci a sentire. 

Certo la mia assenza da Gela, tanto lunga da farmi perdere tanti bei ricordi, potrebbe avere coltivato un rimpianto ed un rammarico da nutrire con una biografia colma di gratitudine per l’amico scomparso, ma spero che non sia così: la perdita dei dettagli regala una vista più veritiera, dona al sapere e alla memoria una comprensione migliore delle cose e delle persone. La generosità, suscitata da una lunga assenza da Gela, è sacrosanta per un uomo che è riuscito a vivere come “il signor nessuno”, essendo una persona speciale per molti. 

Ugo Randazzo era figlio d’arte: aveva ereditato dai genitori la libreria-edicola di Corso Vittorio Emanuele, e l’aveva presto trasformata in un emporio elegante ed in un cenacolo di conversatori. Le due anime convivevano senza sgomitare fra loro. Costruì così una comunità, fatta di clienti del libro e del giornale, e di amici impegnati in ogni settore della vita cittadina.

Quando Gela cominciò ad essere visitata dai grandi reporter, per via delle sue specialità (la crescita demografica da record, la scoperta delle mura timoleontee, i tesori della numismatica greca, poi il petrolio, l’Agip, l’Eni, Mattei ed altro…), la visita nella accogliente libreria del Corso divenne un atto dovuto e necessario per scrivere sulla città. Il parroco, il sindaco, il capitano dei carabinieri, il commissario di Pubblica sicurezza ma anche Ugo, valeva la pena di ascoltare per sapere come stavano le cose. E se il folklore e il neocolonialismo dei reportage è stato qualche volta mitigato, lo si deve forse all’ironia e alle verità di Ugo, proposte con sobrietà e in giusta misura, perché altrimenti erano indigeribili per i neofiti delle incursioni nel profondo sud, costretti a capire tutto in 24 ore, compreso il sonno notturno. 

Un compito non facile, quello di Ugo. Non ero abbastanza giovane da sapere tutto (di credere di saper tutto…), né sufficientemente anziano da avere accumulato le conoscenze utili a decodificare le novità, che si inseguivano l’un l’altra ogni giorno. Scrivevo (per il giornale L’Ora prima, e il Giornale di Sicilia dopo), su tutto ciò che capitava, ma non avevo gli strumenti per indovinare quale futuro il petrolio ed il petrolchimico avrebbero riservato alla città ed alla sua gente. Quegli alberi dai tronchi imbiancati che accompagnavano le auto lungo la strada che portava alla fabbrica, a valle della collina, mi facevano paura, ma era la folla di operai e impiegati che la fabbrica ospitava a seppellire i segni dell’inquinamento con i suoi problemi che varcavano lo Stretto. 

La libreria era una camera di compensazione, o – se volete – il posto del compromesso –  nella quale i buchi neri del ”progresso” si confrontavano, su una bilancia virtuale, con il benessere che, grazie al cinema americano, accompagnavano le trivelle ovunque fossero posizionate. Non si parlava perciò solo di libri “da Randazzo”, ma di che cosa ci saremmo dovuti aspettare e di che cosa accadeva sotto i nostri occhi. 

Il cenacolo diventava movida, contenuta ma sempre tale, seppur composta, sul marciapiede antistante la libreria, difronte la facciata della chiesa di San Rocco, sulla quale erano affissi i cartelloni dei film del giorno nei cinema cittadini. In quel tempo strampalato capitava proprio di tutto. Mi trovai accanto alla bacheca dei giornali di Ugo quando fui testimone dell’arresto di un gruppetto di giovani dal cuore nobile e le idee confuse che distribuivano volantini per conto di "Lotta Continua" (il movimento aveva fatto di Gela una delle sue capitali, assieme a Milano e Torino).

Il volantinaggio provocò, non ne so di più, una fuga precipitosa dei giovani militanti per l’arrivo di agenti in borghese. Catturati, facilmente, ed ispezionati, subirono le manette. Uno degli arrestati era Ciuzzo Abela, poliomelitico: sarebbe morto dopo trenta giorni di carcere all’età di 27 anni. Tutto accadeva nei paraggi della libreria, distante un centinaio di metri dalla piazza principale, la piazza dei comizi, e trecento circa dal Palazzo comunale, nel cuore pulsante dello shopping. 

Resistevo con fatica al piacere di dare uno sguardo agli articoli che portavano la mia firma segnati in rosso sulla bacheca preparata di buon mattino da Ugo accanto alle vetrine della libreria. Mi accodavo ai capannelli, cercando di carpire i commenti, spesso sorprendenti, perché a quel tempo quanto veniva stampato sui giornali conservava la dignità di una notizia nata da un fatto. Qualcuno, dopo avere letto, entrava in edicola ad acquistare il giornale; qualche altro invece prendeva il giornale, con o senza il permesso di Ugo, leggeva comodamente, ma in piedi, l’articolo che lo interessava, lo riponeva al suo posto avendo cura di mantenere la foliazione, salutava il padrone di casa e andava via. Allorché ciò avveniva, se ero presente, Ugo mi lanciava un’occhiata per farmi partecipe della sua irritazione. 

Non rimproverò mai nessuno di leggere il giornale a sbafo, ma se il lettore non pagante indossava l’abito buono, ed aveva l’aria professorale, Ugo non riusciva a trattenersi dal farmi conoscere la sua indignazione, al momento giusto. Come dargli torto? 

Una volta dimenticai in auto un mio amico, a causa di Ugo. Per obbedire al rito quotidiano avevo parcheggiato la mia auto davanti alla libreria per acquistare i giornali e, inevitabilmente, scambiare qualche parola con Ugo. Non ricordo qualche fosse il contenuto della chiacchierata, so soltanto che non ebbe breve durata e che uscii dalla libreria; invece di risalire in auto, andai dritto a casa mia a piedi, lasciando la vettura dov’era, insieme al suo contenuto. Pranzai e presi il caffè, e solo allora ricevetti una telefonata da Ugo, che mi comunicava, divertito, di trovarsi davanti alla mia “seicento” con il mio amico ancora in attesa di mie notizie. 

Non vi meravigliate della perseveranza, succedeva questo al tempo di Ugo; che un amico, forse preoccupato, forse no, non si stancasse di attendere. Altri tempi, proprio così. Quando piango la scomparsa di Ugo, sento perciò, irresistibile, la nostalgia di quel tempo strampalato, così vecchio e indifeso da impedirmi di invocarlo. 

Si è fatto tardi, ormai, ce ne stiamo andando tutti, uno dopo l’altro, da Gela (e dalla vita). Resta di portare la fatica di vivere, senza doversene vergognare, come Ugo. Ho detto a Felicia, e vale anche per Giovanni – i due figli di Ugo – che devono andare fieri di suo padre. E’ grazie a Ugo che la nostalgia di quel tempo e di quella città ci regala la dignità piuttosto che la compassione.