Quel giorno in cui Macaluso venne a Gela per parlare dell’ex sindaco Pci, La Rosa

Quel giorno in cui Macaluso venne a Gela per parlare dell’ex sindaco Pci, La Rosa

E’ faticoso sottrarsi alla partigianeria della memoria, che stravede o ignora a suo piacimento i fatti.

Il ricordo talvolta è come un file smarrito nella memoria del computer. Hai formattato l’hard disk, e recuperarlo, indistinto ed indistinguibile, è una missione impossibile. A meno che una parola, un episodio, un nome faccia scattare la scintilla. Basta poco, e quel pezzo di vita, irrimediabilmente perduto, torna a far parte di te. 

E’ la recente scomparsa di Emanuele Macaluso che ha risvegliato in me il ricordo di due giornate trascorse con i due grandi vecchi della sinistra italiana, Sandro Pertini ed Emanuele Macaluso. I miei maestri. Non sono mai saliti in cattedra, non ho ascoltato le loro lezioni, ma mi hanno insegnato più di ciò che ho appreso dalle letture. Sandro Pertini mi ha insegnato a non calare le braghe, Emanuele Macaluso a restare nel solco della sinistra riformista, laica, liberale, padrona della sua storia eppure disposta a confrontarsi con il presente e pronta a coglierne le novità ed accendere l’upgrading. E’ grazie a queste due anime del socialismo libertario, presenti su fronti diversi, che riesco a sopportare una deludente realtà, mantenere la barra dritta, restare con i piedi a terra, cercare ostinatamente la “patria” civile senza confini in cui abitare, magari in pace con me stesso e con il mondo. 

Enfasi ed utopia, certo, ma è un omaggio che devo ai maestri. Sandro Pertini ed Emanuele Macaluso, così diversi per carattere e storia politica, convivono senza fatica nel mio mondo migliore. Non si sono mai intruppati, pur lasciandosi coinvolgere nelle vicende politiche che hanno caratterizzato la storia, rispettivamente, del Partito Socialista Italiano e del Partito Comunista Italiano.  Pertini nelle brigate partigiane, Macaluso nella Cgil siciliana in tempi assai duri, gli anni della guerra al feudo e alla mafia, hanno lasciato una impronta incancellabile. 

Non so se si siano mai incontrati, penso di sì, ma quando ciò è avvenuto, credo che si siano sentiti dentro la casa comune. Pertini, del resto, fu l’uomo più vicino al Pci, Macaluso l’uomo più vicino al Psi. Sandro Pertini non organizzò correnti, né fronde; non si mise mai a capo di una fazione, interna o esterna al suo partito. Si stagliava dentro il Psi, litigioso e diviso, come una figura “altra”, con la quale fare i conti. Emanuele Macaluso, dal canto suo, riuscì a sottrarsi alle ferree regole del centralismo democratico, dove il centralismo sta per adesione indiscussa alle direttive di vertice, e democratico, come aggettivo dolcificante dell’indigeribile ubbidienza. Non subì ostracismi né lavate di capo, ma le sue eresie rappresentavano pur sempre una pericolosa falla a bordo; così, dopo il felice transito alla direzione dell’Unità, cui era stato chiamato grazie alla versatilità, l’eleganza e i contenuti dei suoi scritti, restò fuori dalla scena, riservata all’ortodossia. 

Non ho un diario cui aggrapparmi, né scritti cui attingere per narrarvi le giornate trascorse con Sandro Pertini ed Emanuele Macaluso. Quella trascorsa con Pertini meriterebbe, da sola, un lungo, dettagliato racconto. Lo immaginavo schietto, aspro, insofferente, tutto d’un pezzo ed insieme dotato di una naturale empatia verso il prossimo. Accompagnandomi a lui, trovai una puntuale conferma delle mie opinioni. Amava dire le cose come stanno, non rinunciava alle bacchettate e alla sua pipa. 

A Palermo ricevette la laurea honoris causa, e partecipò all’anniversario della morte di Salvatore Carnevale, bracciante e sindacalista socialista di Sciara (PA) assassinato a colpi di lupara a 31 anni dai mafiosi di Sciara (Pertini assunse la parte civile nel processo contro i mafiosi per volontà della madre di Carnevale, Francesca Serio.) 

La fortuna di conoscerlo da vicino è dovuta a due circostanze: nel 1986 portavo un fardello pesante, la segreteria di Federazione del Psi e la direzione del Servizio Stampa dell’Assemblea regionale siciliana. Non potevo non stargli accanto. Incontrò giornalisti e “compagni” di partito, venne a rendergli omaggio anche Achille Occhetto, allora segretario regionale del Pci in Sicilia, con il quale ci intrattenemmo a colazione, insieme all’allora presidente dell’Ars, Totò Lauricella. Prese bonariamente in giro Occhetto, fingendo di non ricordarsi di lui, mentre pranzavamo.  “E tu chi sei, giovanotto?”, gli domandò più di una volta. 

Incontrando una giornalista, la collega Bianca Stancanelli, giornale L’Ora, le confessò di essere distratto dalla sua avvenenza e di non potere perciò formulare la risposta giusta alle sue domande, a riprova di quanto falsa fosse l’idea di Pertini scontroso e arcigno. Credo che il suo carisma ed autorevolezza traessero vantaggio dalla ruvida ironia anche nei momenti formali (non sopportava il protocollo.) Quando mi prese a braccio per un tratto di strada, scoprii la sua disinvolta amabilità. Un nonno gentile e affabile. Eppure era lo stesso uomo che aveva chiuso i conti con il fascismo e con la vita terrena di Benito Mussolini. 

Trascorsi con Emanuele Macaluso il primo giorno di febbraio del 1997. Un viaggio in auto, andata e ritorno, da Palermo a Gela. Dovevamo presentare il libro di memorie di Paolo La Rosa, ex sindaco comunista e mitico dirigente sindacale gelese. Emanuele Macaluso aveva scritto l’introduzione, io la postfazione. Emanuele manteneva legami forti con la “base”, non si negava mai ai compagni, comunisti o socialisti, tutte le volte che ne invocavano la presenza. Per me l’invito di Paolo costituiva un attestato di stima politica e personale. Consigliere comunale socialista a Gela, lo avevo votato per la carica di sindaco, che ricoprì per sei mesi circa. Non posso riferirvi il contenuto delle conversazioni che ho avuto durante il viaggio con Emanuele, ma so per certo che posi a lui l’enigma del socialista Macaluso, togliattiano di ferro, nella casa comunista. Un enigma irrisolto. 

Suppongo, comunque, che sia andata così.  “Tu sei davvero comunista?”.  Emanuele sorride sotto i baffi. Lo incalzo: “O sono io nel posto sbagliato, stando nel socialismo, oppure lo sei tu. Non c’è scritto, questione o l’argomento, che mi trovi in disaccordo con te… Chi sta sbagliando?” “Nessuno dei due”, risponde. Non una parola in più. Rimugina, chissà quante volte ha dovuto rispondere alla stessa domanda, chissà quante volte se lo è posto lui stesso l’enigma. 

Ancora una pausa, in cui resta silente – non vi meravigliate se la memoria sembra regalarmi tanti dettagli, vi prego di prestar fede alla mia ricostruzione – gli domando come faccia a far convivere la laicità di pensiero con la fede nel Migliore, Palmiro Togliatti, del quale è stato, di fatto, a lungo quasi il braccio destro. Emanuele nega, e questo lo ricordo, che ci sia contraddizione fra la sua militanza migliorista, che sta per riformista, nell’area di Giorgio Napolitano, e Palmiro Togliatti, custode dell’ortodossia comunista “all’italiana”. Non oso forzare più oltre la memoria, sospetto che sia stato difficile per lui trovare qualcosa di persuasivo, e presumo tuttavia che il suo rapporto con Togliatti fosse indistruttibile grazie al pragmatismo, tratto comune in entrambi, e ad una amicizia solida. Idee, scelte, eresie, restavano perciò al loro posto senza turbare il sodalizio. 

Il libro di Paolo La Rosa, motivo del nostro viaggio a Gela, avrebbe contribuito a rafforzare la singolare figura del dirigente comunista “fuori dal coro”, che ragiona con la propria testa, ma legato alla base, radice della militanza. Paolo La Rosa aveva un curriculum esemplare. Arrivato dalla vicina Mazzarino, come quadro intermedio nella sezione comunista gelese, s’era guadagnato i galloni di capopopolo alla testa dei braccianti prima e dei chimici dopo, a riprova della duttilità con la quale Gela seppe adeguarsi all’industrializzazione compiuta in pochi anni. Un miracolo, se ci pensate; altrove ci hanno messo un secolo per adeguare competenze e comportamenti alla nuova stagione dei rapporti umani e delle relazioni sindacali. 

Emanuele Macaluso, nel suo intervento a Liceo Classico Eschilo di Gela, luogo della presentazione delle memorie di La Rosa, si riconobbe nel “militante” di base. Ricordò le lotte dei contadini che costarono anni di carcere e persecuzioni, e la vita di sindacalisti assassinati dalla mafia. Il transito da Mazzarino a Gela, osservò Emanuele, permise a Paolo La Rosa di vivere l’era e l’illusione del petrolio e del metano, la rottura del monopolio americano nelle concessioni petrolifere, la convergenza della sinistra siciliana e sindacale con la Sicindustria di Domenico La Cavera, la consegna delle trivellazioni all’Eni da parte del Governo Milazzo. Una storia che Emanuele Macaluso visse da protagonista, uno dei fautori dello “strappo” siciliano, e partecipe in prima linea della prima (e unica) scissione democristiana, “provocata dallo strapotere fanfaniano”. Furono l’autorevolezza di Macaluso ed il suo personale rapporto con Togliatti a permettere la partecipazione dei comunisti siciliani al Governo Milazzo, insieme alla destra. Pragmatismo, appunto.

Quanto a me, restai sulla strada tracciata da Emanuele. Parlai del sindacalista e dirigente politico La Rosa, ma era a lui, a Macaluso, che le mie parole erano indirizzate, perché Paolo aveva “il suo doppio”, al pari di Emanuele: nella quotidianità, l’integralismo, il populismo, che sembravano far parte della natura di Paolo La Rosa, lasciavano il posto al dialogo, alla mediazione, alle buone ragioni. Nessun compromesso con la coscienza, nessun tradimento, ma il bisogno di consegnare alla politica, alla democrazia ed alle sue regole, lo spazio che ad essa spettava. 

La Gela degli anni Ottanta, insanguinata da stragi mafiose, e quella degli anni Novanta, con i primi indizi di crisi della produzione, pesarono come macigni nella ricostruzione degli eventi e nella narrazione di uomini di forte tempra, come Paolo La Rosa. E perciò prevalsero i segni della disillusione. In che cosa si era sbagliato? In Emanuele Macaluso non ci fu spazio per le prospettive. La memoria recente dei morti di mafia e la fine del sogno texano – le trivelle simbolo di miniere d’oro – interrogavano tutti, la sinistra in prima linea, ed imponevano piuttosto il compito di fare un ripasso degli sbagli compiuti e della fiducia tradita.