Gela, brand inattaccabile del neocolonialismo d'antan

Gela, brand inattaccabile del neocolonialismo d'antan

La fede nel dogma si saldò con l’ideologia prevalente, la credenza che il possesso dei mezzi di produzione debba stare nelle mani dello Stato, cioè del popolo sovrano.

L’intrapresa pubblica, e solo questa perciò, può realizzare la palingenesi, concedere benessere e lavoro in un’area segnata dal sottosviluppo e dal cosiddetto circolo vizioso depressivo. 

L’ideologia è un dogma che può essere messo in discussione, ma chi si mette di traverso è un eretico.  Da una parte ci sono le multinazionali, le Sette Sorelle, il capitale privato, i poteri forti; dall’altra lo Stato, cioè il popolo. Non c’è partita su ciò che è meglio: il privato si arricchisce alle spalle dei lavoratori. E al netto dell’avidità, se così non fosse, ha tutto il diritto di guadagnare dal suo investimento, traendo un beneficio ben maggiore del lavoratore.

L’investimento pubblico, ne consegue, può compiere la sua mission palingenetica, e cancellare la povertà, punire l’ingordigia del “padrone”. Erano questi i comandamenti della sinistra, in grave ritardo rispetto alle dinamiche economiche e finanziarie.  Gela si sarebbe trovata in una botte di ferro. Ed avrebbe provato al mondo intero che finalmente quei quintali di carta dedicati al Meridione d’Italia sarebbero diventati, grazie al capitale pubblico, sviluppo e benessere. Vent’anni dopo gli Americani. Sarebbe sbarcato un altro esercito di liberatori. Dalle stelle e strisce al cane a sei zampe. 

Dogmi e ideologia, calcoli e sottobanco scaltri: l’industria primaria costruisce la sua cattedrale nel deserto, si tratta però, come amavano dire i nostri nonni, “cuntintizza in sonno”. Ben presto le partecipazioni statali segneranno confini rigorosi alla loro mission salvifica. Altro che effetti moltiplicativi. Gli imprenditori locali investiranno nei prodotti di base della fabbrica, contando su relazioni industriali preferenziali, costi ridotti della materia prima, al netto del trasporto, e apprendono invece che la realtà è ben diversa. 

La “cattedrale” non guarda al di là del suo naso, non fa deroghe alle leggi di mercato, Milano o Gela non cambia niente: acquista e vende rispettando collaudate relazioni industriali, che escludono la nascente impresa gelese. I capitani coraggiosi di Gela così scoprono che è più conveniente acquistare la materia prima all’estero piuttosto che dal petrolchimico. Comperare in Ungheria, per esempio, è meglio che comperare dall’Anic. Incredibile, ma vero. Capita con i fusti per il petrolio della raffineria e con le plastiche. 

Gli effetti moltiplicativi si rivelano una buggeratura. 

Il canale privilegiato dell’investimento pubblico non ha affluenti, ha un solo destinatario. La Cassa per il Mezzogiorno assegna alle Partecipazioni statali risorse illimitate: il porto-isola, il desalatore, ed altre infrastrutture sorgono con le risorse dello Stato. Miliardi di miliardi. Non una lira, arriva invece alla città che deve sopportare il peso di una immigrazione massiccia, e non può contare su servizi idonei (scuola, presidi ospedalieri, condotte fognarie, strade, case, ecc.). 

L’Anic realizza un villaggio residenziale, Macchitella,  un’isola urbanizzata, ai piedi della collina, ma dapprima lo recinta, seppur virtualmente, affiggendo un cartello, che avverte sulla natura privatistica del quartiere. Un ghetto alla rovescia. Il bisogno di casa da parte dei residenti rimane insoddisfatto a causa dell’assenza di strumenti urbanistici.

A ridosso del centro storico fiorisce una casbah, strade sterrate, prive di condotte fognarie, acqua, luce. Chi acquista un fazzoletto di terra crede di fare un affare, in realtà paga quei metri quadrati terreno privo di infrastrutture primarie dieci volte di più di quanto l’avrebbe pagato nel centro storico. Risultato,  Gela è un mostruoso groviglio di case. 

Generoso con le Partecipazioni statali, miliardi di lire per le infrastrutture, lo Stato è avaro con la città. La giustizia è amministrata da un pretore e, per un lungo tempo, da pretori onorari, come fosse un borgo di campagna. Presidi di sicurezza inesistenti (polizia, carabinieri, ecc.), giustizia latitante. Nasce e cresce il crimine, organizzato e non; l’indotto del petrolchimico fa gola alle mafie.

L’assenza di controlli e vigilanza però conviene alla nomenklatura, mafiosa e non. Il management industriale fa buon viso a cattivo gioco, mette in campo strategie soft per conservare la pace sociale, accontenta i cacicchi politici locali di qualsiasi parte politica, e i ras mafiosi. 

Una guerra per bande, questo è l’effetto moltiplicatore. Le mafie del palermitano e dell’interno nisseno si confrontano a Gela con i malviventi residenti, che si organizzano e guadagnano il titolo di “stiddari”. E Gela, fino ad allora mafiafree, guadagna la popolarità triste di Mafiaville. Morti, attentati, minacce, pistoleri giovanissimi, donne-boss, western.

E’ la fase del concepimento e della costruzione del petrolchimico (ubicato a ridosso della città, il luogo meno adatto per un’industria insalubre), il tempo di gestazione della “malattia”, durante il quale il crimine e l’illegalità possono agire indisturbati.  Arriverà l’esercito, dopo una strage compiuta dai mafiosi, quasi vent’anni dopo, è l’operazione Vespri siciliani, ma i boss hanno già messo radici. 

A circa quaranta chilometri ad est di Gela, accanto alla fabbrica più grande del Mezzogiorno, prospera intanto la vicina Vittoria grazie alla coltura in serra ed ai vigneti,  la commercializzazione dei prodotti agricoli, l’ortofrutta, guadagnando il podio nel Meridione d’Italia.

Comune rosso per tradizione politica, cultura d’impresa intelligente, a Vittoria si sperimenta il capitalismo alla cinese.  La povertà viene aggredita dal “basso”, senza i miliardi della Cassa per il Mezzogiorno. Le dune del “Gelese”, al di là del petrolchimico, divengono vigneti vittoriesi; perfino il vitigno gelese doc viene commercializzato dagli imprenditori vittoriesi. 

Vittoria, isola felice? Anche qui, lo Stato è assente, e la circolazione del denaro, come a Gela, non sfugge al sottobosco locale, anche qui nascono le famiglie del crimine. E’ il grande mercato dell’ortofrutta ad attirare i boss. Nel vittoriese non si contano gli attentati mafiosi, le intimidazioni. Le guerre di mafia inquinano la politica cittadina. 

Che cosa hanno in comune Gela e Vittoria? 

A Gela l’investimento pubblico, a Vittoria l’impresa privata. Due storie diverse, ma un male comune, la mafia, il crimine. Vittoria, come Gela, prima del suo boom economico, è una tranquilla città di provincia, ben amministrata. Anche qui lo Stato (e la Regione siciliana) è assente, come a Gela. La lezione è chiara, il vuoto lasciato dallo Stato viene colmato dalle famiglie mafiose. E’ il sistema che crea il crimine, qualunque sia la sorgente dei capitali. 

Senza uno Stato molto presente e vigile, gli investimenti, pubblici e l’intrapresa privata entrano nel cono d’ombra dell’illegalità e del crimine, che brutalizzano la coesione sociale. Mentre a Roma si discetta sulla programmazione economica e sulla ideologia dell’investimento pubblico o del liberismo privato, Sagunto subisce la legge dei boss, ieri ed oggi. Gela conosce il tramonto della cattedrale (nel deserto), Vittoria la maledizione dell’economia mafiosa. 

Se quei quintali di carta dedicati al meridionalismo fossero stati letti con la voglia di imparare, le due capitali del “miracolo” siciliano, industria e ortofrutta, sarebbero diventate la locomotiva della Sicilia. 

Ma se è tutta colpa dello Stato, il “fascicolo” si può archiviare come “atti contro ignoti”. L’assenza dello Stato non è una formula assolutoria: lo Stato siamo noi, a ciascuno la sua porzione di responsabilità. Quanta indulgenza spetta a coloro che non potevano sapere e quanta responsabilità va assegnata agli altri che, sapendo, hanno taciuto, intrallazzato, guadagnato profitti e privilegi grazie alla loro posizione economica, sociale e politica. Costoro hanno nomi e cognomi, e sono ancora in mezzo a noi. Anzi, pontificano sui misfatti e le omissioni. 

Lasciarsi alle spalle il passato, mi sono chiesto all’inizio.  E’ una buona cosa a patto che si abbiano le idee chiare su ciò che il passato ci ha regalato. Nessuno deve poter dire che non abbiamo capito come sono andate le cose e osi attribuire al neocolonialismo degli anni Sessanta meriti che non ha, come se Gela avesse ricevuto un dono da anime pie dotate di magnanimità e lungimiranza.