L’«affaire Gela». I ciechi, i sordi i muti, e i boss che volavano basso

L’«affaire Gela». I ciechi, i sordi i muti, e i boss che volavano basso

La storia antica di Gela non ha segreti, nell’immaginario locale è l’età dell’oro, un mito.

La storia medievale è uno scrigno al quale si avventurano uomini illuminati per carpirne il tesoro nascosto. All’ultimo secolo, invece, si resta lontani, come se si temesse il disvelamento, inquinasse il mito della creazione. La storia più recente è solo cronaca della quotidianità. Una clessidra rovesciata, presbiopia culturale, pagine bianche. 

La mia è impazienza? Forse bisogna lasciare al tempo il compito di accettarla e averne consapevolezza. Forse è una rimozione che ci interroga. Quale ruolo ha esercitato, quale parte ha avuto la comunità gelese nei sessanta anni appena trascorsi? Se i gelesi avessero visto in una sfera di cristallo, nitidamente, il futuro l’avrebbero combattuto, respinto, impedito? Avrebbero resistito al mito del petrolio, simbolo di benessere e ricchezza, e alle nobili aspettative?  Ponendo queste domande semplifico una vicenda complessa, ma regalo una concreta prospettiva a chi abbia in animo di fare i conti con la propria storia ed assumersi la responsabilità di ciò che è stato e non poteva essere diversamente.

La creazione – di una società industriale o altro – nasconde sempre un fondo opaco ed incognito, porta con sé una ambivalenza corriva. 

Sul ruolo della comunità ho pochi dubbi. Una comparsata durata più di mezzo secolo. La partecipazione agli eventi che l’hanno trasformata – partecipazione attiva, partecipazione alle scelte – è stata quasi inesistente. I gelesi che hanno indossato la tuta sono tanti, tuttavia, e hanno creato ricchezza per sé (con il loro reddito e i loro consumi) e per la nazione, contribuendo alla produzione energetica. Nutro forti dubbi a considerare significativo il loro apporto.

Ciò che hanno fatto, con grande dignità, non appartiene a Gela. Gli stessi scheletri della fabbrica, ancora in piedi, non appartengono alla città, non suscitano nemmeno la voglia di sapere come è veramente andata. E’ scandaloso che l’industrializzazione di una popolosa città siciliana, dedita prevalentemente all’agricoltura, non abbia trovato posto nella sterminata letteratura meridionalista e che l’unico contributo di ricerca sia venuto da due sociologi – uno svedese ed un romano che ha lavorato in  Spagna (Hytten e Marchioni) – e che questo contributo sia sparito dagli scaffali dopo 24 ore per mano “pubblica”. 

Occorre investigare sulle origini della storia recente, la fine degli anni cinquanta. L’Agip Mineraria fece da apripista all’Anic, realizzando la piccola raffineria presso il terminale marino. E una impresa gelese, la Sicilfusti, investì ingenti risorse per inaugurare un proficuo collateralismo, producendo fusti. Quando l’Anic entrò in produzione, un’altra impresa, anch’essa di Gela, la Gelaplast, investì nella fabbricazione di sacchi di plastica. E’ l’alba dell’industrializzazione. L’anticipazione della profezia degli effetti moltiplicativi.

L’Agip acquistò i fusti altrove, l’Ilva di Napoli, giudicando il prodotto gelese inadatto. la Gelaplast venne affossata dal prezzo del polietilene aumentato del venti per cento. La Sicilfusti finisce in bancarotta e il suo titolare in manette; la Gelaplast sopravvive per qualche tempo, e poi si arrende. Il vantaggio territoriale si trasforma in svantaggio. Il prezzo della materia prima è uguale a Gela e Milano, sono le imprese gelesi a pagare il trasporto del prodotto nel nord. La disastrosa fine della Sicilfusti e della Gelaplast, due episodi iconici, sono la cartina di tornasole del sistema messo in campo.

A metà degli anni Sessanta sono cinquanta le imprese che operano nell’indotto del petrolchimico, solo quattro le imprese locali e ventidue le siciliane; diciotto sono settentrionali, di esse appena due hanno sede fiscale a Gela e svolgono lavori in economia, cioè affittano braccia per l’insaccaggio e stivaggio. Fioriscono le cooperative fittizie, e c’è, fra queste, chi cede in subappalto, le braccia della forza lavoro, una tangente, nemmeno nascosta. Una sorta di caporalato, nato fuori dalle piazze. E’ in questa fascia, opaca, nel terziario, che entra la mafia. L’impresa produttiva non decolla, viene scoraggiata, nei servizi dell’indotto il business è facile, e chi ha le mani in pasta, per vari motivi, la spunta. 

Il management, che opera sulla base di modelli esperienziali acquisiti in altre aree del Paese, si concede un’ampia discrezionalità, sfrutta la totale libertà d’azione per lo scambio dei favori con il mondo politico, sindacale e, ahimé, i boss. Questa condizionalità esercita un forte richiamo per la intrapresa mafiosa, per sua natura parassitaria, a prescindere dai sospetti di collusioni e connivenze. Ci sono indizi di una distribuzione delle commesse studiata a tavolino per mantenere la pace sociale (scioperi, intimidazioni) e guadagnare “serene” relazioni politiche.

La vecchia mafia riesina – reperti archeologici, prostituzione, contrabbando di sigarette e droga, distributori di carburante, colletti bianchi piazzati in qualche ruolo chiave – s’infiltra senza trovare resistenze, cedendo anche alcune importanti fasce di business. Trova l’intesa con i boss immigrati saggiamente, la torta è grande: i servizi di pulizia  e giardinaggio (quartiere residenziale), insacco e stivaggio, facchinaggio porto isola,  trasporto di persone e prodotti, gestione mensa, manutenzione, forniture ecc.). Le sanzioni per chi sgarra e gli avvertimenti per chi non cala la testa, lambiscono la cronaca, si preferisce volare basso. Bruciano le auto di notte, non si fa male nessuno, e gli inquirenti paiono rispettare l’understanding. Si indaga sull’autocombustione. C’è chi non capisce e chi non vuole capire. 

Ma il terreno viene irrorato proprio in questi primi anni dell’industrializzazione. Mentre si chiude ogni spiraglio alla nascita di imprese produttive, si alimenta il grande business della compravendita delle braccia. Non solo, viene disincentivata la creazione di una imprenditoria sana, ma si aiuta il sottobosco mafioso e paramafioso a compiere un salto di qualità, dal piccolo cabotaggio al grande business. Non è necessario il fiuto imprenditoriale e non è previsto il rischio d’impresa quando si affittano i lavoratori. Basta che ci sia un ragioniere che sappia fare i conti. 

Le relazioni con la fabbrica passano attraverso padrini regionali e nazionali quando l’affaire è rilevante; la politica locale s’infeuda più di quanto non lo sia già, collude e tal’altra s’imparenta, magari a sua insaputa. Nelle consultazioni elettorali il consenso, decisivo per l’alto numero di elettori, Gela offre un gregariato attivo e leale. Nascono partiti allo scopo di ricattare il management della fabbrica. Invece che la fine del familismo – lo scambio di favori, la distribuzione dei privilegi – s’instaurano e si incentivano connivenze che inquinano la comunità locale, mettendo in circolo veleni fin ad allora sconosciuti. Clima irrespirabile, e stavolta, non c’entrano i gas di scarico del petrolchimico. 

Se l’investimento nell’industria primaria, il più dispendioso della storia, è stato deciso per dimostrare che il Sud può essere guarito delle sue vecchie piaghe – la povertà, il familismo e la mafia – e trascinare il Paese verso una crescita equilibrata da Nord a Sud, il risultato è un fallimento pieno. La medicina ha aggravato la salute del malato. Le mafie s’industrializzano. Per quasi un ventennio Gela balza sulle prime pagine come una delle capitali della mafia. 

Eppure il potere delle scelte, il fiume di denaro arrivato a Gela, è stato gestito dal Nord, dove ha sede l’Eni, ed a Roma, presso la Cassa per il Mezzogiorno, da gente che viene da un altro mondo. Uomini del nord e non meridionali estranei al comparaggio e sideralmente lontani dalle coppole storte. 

Assenza dello Stato (magistratura e polizie), di presidi di sicurezza, di vigilanza e controlli?  Cecità, imprevidenza, incompetenza, gattopardismo? Occorreva cambiare tutto perché nulla mutasse? Il film dell’ultimo mezzo secolo di storia prossima ci racconta di una comunità, quella locale, incapace, o impossibilitata, a partecipare alle decisioni che la riguardano, a causa di un sistema di potere che passa sulla sua testa. I cattivi sono gli altri, gli uomini del Nord? Nemmeno questo è vero. Nella guerra di mafia che ha insanguinato le strade di Gela, le famiglie di mafia gelesi sono state protagoniste a pieno titolo. La paranza dei ragazzi di Gela ha recitato la parte più cruenta. E all’imperizia ha supplito con la ferocia. 

E’ una storia tutta da raccontare ancora, tutta da studiare, ma è ora di alzare il sipario su questa brutta pagina e starci dentro, com’è giusto che sia. Potremmo perfino scoprire che le aspettative, erano un’utopia. Nel teatro degli eventi ognuno ha recitato la sua parte, anche il bosso elevato al rango di imprenditore o chi ha preferito affacciarsi sul balcone e osservare il mondo che stava cambiando davanti ai suoi occhi pigri.