Rosario Livatino, primo magistrato ad essere elevato agli onori dell’altare

Rosario Livatino, primo magistrato ad essere elevato agli onori dell’altare

Nel Vangelo secondo Matteo alla maliziosa domanda dei farisei che chiedono a Gesù se è giusto che gli ebrei paghino i tributi ai romani, il Cristo risponde “Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”,  una risposta chiara, che non si presta ad ambigue interpretazioni, e che ci dice come ogni cittadino senza tradire la propria fede, ma anzi esercitandola, può anche essere un buon cittadino rispettoso della Legge.

E questo è stato anche l’atteggiamento di Rosario Angelo Livatino, il giovane magistrato di Canicattì, che fu brillante e onesto servitore dello Stato, e al contempo modello esemplare di cristiano: esempio tangibile di come sia assolutamente conciliabile vivere in armonia con Dio e con la società, osservando i precetti del Vangelo e gli articoli della Costituzione, facendo semplicemente leva sui principi dell’onestà, dell’integrità, della coerenza. 

Livatino, che faceva parte dell’Associazione Cattolica e di altri gruppi laicali, ogni giorno, all’insaputa di molti, si recava a pregare nel santuario di San Giuseppe, a pochi passi dal Tribunale di Agrigento. Ma è proprio per quell’essere stato buon magistrato e buon cristiano, Livatino ha pagato con la vita.

Egli venne ucciso brutalmente dalla mafia con diversi colpi di pistola, 2 dei quali sparatigli in faccia, il 21 settembre del 1990. Allora Rosario aveva solo 38 anni, e anche per l’avere bruciato le tappe nella sua ascesa alla magistratura, era stato chiamato il giudice ragazzino. Un giudice che sin dalla sua prima indagine avviata contro “i cavalieri del lavoro di Catania”, aveva dimostrato il suo spessore professionale, così come in tutte le altre delicate inchieste contro la mafia che seguirono.

Per questo egli era presago del suo destino, che fu poi quello che sarebbe toccato anche a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Profetico in tal senso ciò che accadde il 27 settembre 1988, quando nella Chiesa madre di Canicattì, alla presenza del Presidente della Repubblica Francesco Cossiga, egli aveva partecipato alle esequie del giudice Antonio Saetta e del figlio Stefano, anch’essi assassinati dalla mafia.

Ebbene, proprio quel giorno l’arcivescovo Luigi Bommarito durante la sua omelia disse: “A chi toccherà la prossima volta?”. E toccò proprio a lui, a Rosario, il quale, durante il suo servizio allo Stato rifiutò sempre la scorta, per evitare che insieme a lui venissero uccisi altri “padri di famiglia”.

Venne quindi ammazzato nelle campagne dell’agrigentino – sulla S.S. 640 – alla vigilia di un già programmato periodo di ferie. Nel suo assassinio non solo la volontà di stroncare la vita di un magistrato scomodo e incorruttibile, ma pure un dichiarato odium fidei della mafia,  come bene  si comprende dalla frase pronunciata da un capo di Cosa nostra che definì Livatino “...uno che andava in chiesa a pregare... uno scimunito... un santocchio”.

Dalla testimonianza di uno degli esecutori, poi pentitosi e convertitosi alla fede, si seppe in seguito che  il giudice, proprio mentre stava ricevendo il colpo di grazia disse ai suoi assassini “Picciotti, che cosa vi ho fatto?”. Una frase in cui riecheggiano le parole del Venerdì Santo pronunciate da Gesù: “Popolo mio, cosa vi ho fatto?”, ma dove non mancano neppure echi della cronaca di un altro antico, antichissimo brutale delitto, il primo che l’Umanità ricordi, quello perpetuato da Caino ai danni del fratello Abele. Sì, perché anche Livatino, novello Abele, venne ucciso spietatamente da altri fratelli che, differentemente da lui avevano sposato una vita sbagliata, una via diversa.

Il sacrificio di Livatino però non è stato inutile. La sua figura è divenuta da subito esempio di servizio leale e scrupoloso a difesa dei più sani e autentici valori dell’uomo, e nel 1993, durante la visita di papa Giovanni XXIII ad Agrigento, alla Valle dei Templi, certo l’assassinio del giudice dovette attraversare la mente del pontefice, il quale aveva incontrato i genitori di Livatino poco prima di quel suo ormai storico discorso che lo portò a pronunciare queste vibranti parole: “Coloro che portano sulle coscienze tante vittime umane, devono capire che nessuno può permettersi di uccidere innocenti! Dio ha detto una volta “Non uccidere”...Io dico ai responsabili, io dico ai responsabili: “Convertitevi! Una volta verrà il giudizio di Dio!”. 

Un monito quello del papa santo rimasto negli annali, che condusse – così come testimoniarono molti pentiti di mafia – a diverse conversioni. Quel discorso venne pronunciato il 9 maggio.

Lo stesso giorno in cui, 28 anni dopo, il giudice è stato proclamato beato dalla Chiesa di Roma. La solenne cerimonia si è svolta proprio ad Agrigento dove Giovanni Paolo II condannò, come mai nessuno prima, la mafia e i mafiosi.

La Messa è stata celebrata dal cardinale Francesco Montenegro, Arcivescovo di Agrigento, Prefetto per la Congregazione delle cause dei santi, e da monsignor Giuseppe Marciante, vescovo di Cefalù.

Da sempre terra di martiri, da Agata a Lucia, sino a don Puglisi, ecco che ora la Sicilia annovera fra i suoi beati anche questo giovane giudice dal volto nobile e dall’animo puro.

Certo un esempio anche per i colleghi, alcuni dei quali non sempre sono stati coerenti nello svolgere il difficile mestiere che hanno deciso di esercitare, come ha pure detto con una punta di polemica il magistrato Salvatore Cardinale proprio in occasione dei funerali di Rosario, che di lui fu collega e amico.

E a questo proposito è da ricordare una frase di Livatino, ormai divenuta famosa: “Quando moriremo nessuno ci chiederà quanto siamo stati credenti, ma se siamo stati credibili”. Parole che ancora oggi ci sembra di straordinaria attualità.