Il mito di Angelo balla-balla e le ragazze d’organza

Il mito di Angelo balla-balla e le ragazze d’organza

Per poterlo vedere occorreva un po' di furtuna: trovarsi sul marciapiede opposto, in tarda mattina, avere pensieri distratti e occhi persi nel nulla.

Inatteso, compariva d’improvviso e altrettanto d’improvviso spariva. Sempre al galoppo e con un ritmo cadenzato, la mano destra poggiata sull’orecchio destro e l’altra a mo’ di frusta, scalpitante, a battere il tempo per dettare il saltello della gamba sinistra. Volava, nonostante la complicata serie di movimenti, che rendevano precario il galoppo. Un fantasma in carne ed ossa, del quale si sapeva soltanto il nome, Angelo, seguito dal nomignolo, affibbiatogli a proposito, “balla-balla”. E mai un nomignolo è stato più indovinato. Angelo saltava correndo, come se scappasse da qualcuno o qualcosa, e ballava sfidando la fisica nelle sue folate. 

Come facesse a mantenere quella cadenza elegante e obbligare al saltello la gamba lasciandola sospesa in alto per un attimo, è un mistero. Ricordava quei carillon con il cavaliere che gira, in groppa al cavallo, al suono di una musichetta gentile. Il sincronismo dei movimenti era perfetto. 

Nonostante lo spettacolo durasse un lampo, riusciva a guadagnare l’attenzione della casuale platea. Infatti non c’era il tempo di osservarlo che Angelo usciva dalla vista. Già, noi si stava a grappoli, rigorosamente stanziali, sul marciapiede, davanti l’edicola di Ugo Randazzo sin dall’adolescenza. 

Qualcuno, scoprendo la sua sagoma ancora lontana, sorrideva avvertendoci, qualche altro invece si faceva serio, e qualche altro ancora aguzzava lo sguardo per fissare quel “puledro di razza”, e restava a bocca aperta. La sintonia con cui Angelo balla-balla eseguiva lo spartito aveva dell’incredibile. 

Chi ha visto il film di Federico Fellini, Amarcord, capisce ciò che intendo e, soprattutto, quanto, e fino a che punto, Angelo appartenesse alla sua città. Nel film di Fellini c’è una sequenza che non ha niente a che vedere con la trama della pellicola, la corsa roboante e notturna di un motociclista senza volto, per via degli occhialoni che lo mascheravano e la velocità con la quale attraversava il paese, la città di Rimini al tempo del fascismo. L’apparizione del motociclista era una meteora rumorosa, luminosa come un fulmine e puntuale, costringeva i perditempo appostati nella piazzetta, ad interrompere pensieri e discorsi, per seguire il centauro fino a che non venisse inghiottito dal buio. 

Anche il motociclista misterioso era un fantasma, come il nostro Angelo balla-balla. Un fantasma che segnava l’ora del giorno a Rimini e suggellava l’esistenza di uomini e cose. A Gela il cinema si proiettava sul Corso lui, e non si pagava il biglietto per vedere il film, corto, di Angelo. Sempre lo stesso, eppure diverso e godibile. 

Per quanti anni il fantasma ha attraversato, di corsa, il marciapiede di Corso Vittorio Emanuele, non lo ricordo. So che non è stato un tempo lungo né breve; so anche che la sua scomparsa, definitiva, non fu mai oggetto dei nostri discorsi distratti. Nessuno di noi, i perditempo davanti all’edicola Randazzo, sapeva alcunché di lui, né l’ha mai incontrato altrove. Non interessava a nessuno sapere chi fosse Angelo. C’era e non faceva parte di noi. Sono di quelle cose che non si possono spiegare. Accanto alle nostre ossessioni, agli accidenti e ai fatti che cambiano la vita, la quotidiana è fatta di piccole cose delle quali abbiamo cognizione soltanto quando si sono dissolte.

Poteva capitare, insomma, che non ci accorgessimo, di Angelo balla-balla mentre correva a perdifiato, intenti ad occuparci dei fatti nostri, delle fidanzate presunte o semplicemente sognate magari. Il giorno dopo, però, Angelo al galoppo rispuntava alla solita ora e tutto tornava alla normalità e di qual giorno prima distratto ritornava la memoria. Il tempo, e ne è passato, non ha cancellato Angelo, anzi il suo ricordo è diventato più nitido. La memoria con gli anni si è fatta longeva, ci dona i trascorsi lontani, piuttosto che quelli prossimi. E quello strano personaggio intenerisce e richiama alle tante omissioni di gioventù.

Angelo non ha storia, è il fantasma del primo pomeriggio sul Corso.  Non c’è niente che parli di lui, come se non fosse mai esistito. Eppure lo avevamo adottato, magari per celia o farsi una risata. Ci si conosceva tutti a Gela, o meglio, così pensavamo. Niente di più falso: le nostre relazioni umane, politiche, sociali seguivano regole di cui arrossire, perché prevaleva la rigida separatezza delle classi sociali. L’integrazione, di cui tanto oggi si scrive e si parla a proposito, non era materia frequentata. 

Angelo balla-balla non usciva mai di sera per le sue sgroppate, e mai di domenica. Quelle semplici regole acuivano la nostra curiosità, che rimaneva però, come dire, sulla soglia. La domenica – quando Angelo si prendeva il giorno di riposo – il Corso si riempiva del popolo delle periferie. Non gli sarebbe stato possibile correre a perdifiato infilandosi tra la folla che riempiva sia la carreggiata quanto i marciapiedi. Sul far della sera, la domenica, il flusso di gente era inarrestabile, i gelesi affluivano da Caposoprano verso il centro: famiglie al completo rigorosamente a braccetto, papà e mamma impettiti, papà con giacca e cravatta, mamma con abito della festa.

I bambini stavano al lato e le ragazze più avanti (i giovanotti se ne stavano per conto loro). Compiuti i tredici o quattordici anni, le ragazze, addobbate di organza dai colori sgargianti, comunicavano con il loro abbigliamento ed il trucco, pesante, sul viso, la precoce età da marito. Perciò  erano mostrate con orgoglio dai papà, infastiditi, in giacca e cravatta, e mamme in abito di festa. L’organza era un messaggio inequivocabile e il Corso la vetrina designata, davanti alla quale si poteva indugiare con lo sguardo senza suscitare irritazione. Qualche volta lo sguardo era perfino ricambiato, ma capitava di rado. 

Spettava ai mezzani, quelli che “cunsavano” i matrimoni, il compito di valorizzare l’organza. Erano loro a fare il lavoro di fino, trasformare gli sguardi in promesse di matrimonio. Una professione di tutto rispetto e ben remunerata. I fidanzati non ne sapevano niente, e talvolta nemmeno i giovanotti in età di matrimonio, ed erano già marito e moglie “sulla carta”. La trattativa era di frequente laboriosa, il mezzano si trovava costretto a estenuanti visite in casa delle famiglie interessate. La famiglia del futuro sposo voleva essere rassicurata della dote e ne valutava quantità e qualità, quelli della sposa indagavano con irritante pedanteria sulla solidità economica dello sposo.

La casa costituiva il dono più ambito come dote, la sicurezza economica – il posto di lavoro sicuro - la qualità più apprezzata nello sposo. Qualche volta, a causa della diffidenza delle parti, veniva messo tutto per iscritto, e i mezzani diventavano notai. Mancare di parola poteva diventare un affare serio, ma capitava di rado, solo quando il “ruffiano” non godeva di stima e rispetto, che sono due cose diverse anche se possono sembrare sinonimi. La stima si guadagnava con una vita da galantuomo, il rispetto con la l’autorità, e qualcosa di più, il potere di sanzionare, anche con le brutte, il mancatore di parola. 

Questo era il mondo di Angelo. Anche per chi abitava al centro la passeggiata sul corso era una consuetudine, ma aveva confini ben precisi, Villa Garibaldi, non più in là. Ed era da lì che, probabilmente, partiva Angelo per le sue cavalcate solitarie. Villa Garibaldi era il 48esimo parallelo, così lo chiamavamo, perché tagliava in due la Corea e la città, al di là del 48esimo parallelo abitavano i “coreani”. Siamo nel decennio successivo alla fine del secondo conflitto mondiale e gli americani combattono la coda velenosa del conflitto cercando di arginare i “rossi”. Bollare come “coreani” i residenti della periferia est, forse era un modo di marcare il territorio, a suggello della separatezza. Altro che integrazione. 

I luoghi comuni d’incontro, unici o quasi, erano il cinema, le parrocchie e le sezioni dei partiti, quelli di sinistra, dove qualche figlio di papà riusciva ad infiltrarsi ma era guardato in cagnesco o portato sul palmo della mano, perché non esistevano vie di mezzo. Angelo non faceva parte di questo mondo. A meno che non avesse una doppia vita, chi lo può dire?

Mi sono perso Angelo balla-balla a causa del suo apartheid alla rovescia.  S’era costruito il ghetto, la tana,  chissà dove. Amava i marciapiedi vuoti e ombrosi, i pomeriggi solitari. A distanza di più di mezzo secolo, mi chiedo ancora chi fosse, dove vivesse il resto della sua giornata, se avesse una famiglia, un lavoro, amici, congiunti. E se la sua fosse la manifestazione di una mente disturbata, e fino a che punto fosse tale: la destituzione di una persona, la riduzione a burattino di se stesso, una rondine che ha abbandonato il suo sciame. O la voglia di sollevarsi stando aggrappato ad una diversità insana, il tentativo di farsi accecare dalle lacrime di gioia con gesti estremi capaci di rimborsarlo con la visibilità, una immagine narcisistica consolatoria. O ancora la fuga da una realtà insopportabile, troppo amara da sopportare. 

Chi rifiuta il mondo che lo circonda è prigioniero della sua visione del mondo, non confligge con la realtà reale. Ogni sgroppata di Angelo potrebbe essere un’avventura, un modo, magari improprio e delirante, di tirarsi per i capelli, rivoltare se stesso dentro e fuori, guardarsi con occhi nuovi.  L’avventura del Barone di Münchhausen, ecco cosa mi suggerisce Angelo. Un’avventura folle, élan vital, impulso creativo di chi ha abiurato la dittatura della déesse raison. 

“Un’altra volta”, inizia una nota il Karl Friedrich Hieronymus von Münchhausen, “affrontai  una palude che mi era parsa tanto larga quando fui a metà del salto. Perciò, librandomi nell’aria, invertii la direzione verso il punto in cui ero venuto, per prendere una rincorsa più lunga. Ciononostante anche il secondo salto fu troppo breve e caddi fino al collo nel fango, a poca distanza dell’altra riva. Senza fallo vi sarei potuto morire, se la forza del mio braccio, afferrandomi per il codino, non mi avesse estratto dalla melma assieme al cavallo, che stringevo forte tra le ginocchia”.

Quando appariva – scalpitante e veloce – Angelo indossava abiti decorosi, giacca, pantaloni e una camicia. Si giudica diverso, adotta il cavallo come suo simile. Ma lo cavalca per restare se stesso, frusta le sue gambe, pretende da esse performance equine, pur eseguendo lo spartito di un essere umano, quel pregevole ritmo nei movimenti che lo distinguono dal pur nobile animale.  Non abiura alla sua natura, dunque; anzi, vi rimane fedele. 

Le cose potrebbero però stare diversamente, che quelle sgroppate improvvise rappresentassero la sfida alla gente imbellettata del Corso, scontata e prigioniera delle proprie fisime. Fuori di testa, ma non del tutto. Un bambino adulto, che conserva la coscienza di sé, la sua ragion d’essere. Lo psichiatra londinese Ronald Laing (libro aforistico Nodi) fa emergere più nettamente la trasformazione e, insieme, la sovrapposizione: “In lui, ci deve essere qualcosa che non va/ perché non agirebbe come fa/ se così non fosse/ perché in lui c’è qualcosa che non va...”

Intriga l’immagine di Angelo che guadagna il centro della scena ogni volta che lo vuole, e impone la sua presenza, come un clown che si prende beffe della platea che sciama sul Corso, piena di sussiego e rancori, ricca di una affollata solitudine. Ma ciò che intriga è lontano dalla realtà. La ragione, che mi tira per la giacca, obbliga a piegarmi alla ragione. Angelo balla-balla come me l’immagino, non esiste. E’ una stella cadente, che si ripete all’infinito, alla stessa ora e davanti allo stesso pubblico. Un fanciullo adulto, tenero e solitario, vissuto in una città sedotta dagli eventi epocali, dove circolano ancora i trave car, i camion con il muso lungo, abbandonati dai soldati americani, e le leggende dei lupi mannari, appostati negli incroci nelle notti di luna piena.