Pietro Palma, il felino mansueto a trent’anni dalla scomparsa

Pietro Palma, il felino mansueto a trent’anni dalla scomparsa

Pietro Palma (nella foto) se n’è andato trenta anni fa, la notte del 6 febbraio 1991, durante un sonno sereno.

Svegliandosi nell’altrove che ci accoglie tutti, deve aver fatto fatica a comprendere quel che gli è accaduto. L’uscita di scena, silenziosa e solitaria, è un epilogo di magistrale leggiadria. La “firma” di un uomo gentile. Nelle prime ore del mattino, quando Giovanna lo scuote per svegliarlo, in un’alba dai colori timidi e chiari che sembra replicare i suoi deliziosi acquerelli, Pietro non c’è più. A sessantuno anni e tante cose da fare. 

Pietro Palma è nato a Vittoria nel 1930, ma è un gelese d’adozione. E’ a Gela che ha abitato con la sua famiglia – moglie e due figlie – ed è stata Gela la fonte principale d’ispirazione. Non a caso. Gela è il luogo in cui la natura, più che altrove, ha dovuto inginocchiarsi alla selvaggia furia demolitrice degli uomini; Gela è la metafora dell’aggressione selvaggia. 

A trent’anni dalla scomparsa sopravvivono frammenti di memoria, i ricordi degli amici più cari. Nelle opere di Palma si trovano i nostri ieri, l’oggi e, forse, il domani. Coloro che, come me, hanno in casa alcune sue opere, non perdono il ricordo dell’artista. Ma gli altri? E’ come se Pietro Palma avesse portato con sé le sue opere. L’ombra della impronta terrena mano a mano svanisce, fino a scomparire. Non deve sorprendere, la memoria degli uomini è labile. E’ a Gela assomiglia ad una candela, che consuma in breve il suo tempo. 

L’ultima, ed unica mostra personale di Pietro Palma si è svolta nella Chiesetta di San Biagio, a Gela. Il successo è indubbio. Gli acquerelli, le stele, i disegni fanno conoscere, finalmente, en plain air, un artista. Sorprendono, Esprimono i caratteri di paesaggi brumosi, di un mondo violento, tinte sfumate e geometrie asimmetriche, tele dai colori forti e allucinati. Pietro Palma dipinge ciò che lo emoziona: relitti di barche bastimenti e pescherecci abbandonati sulla riva o nelle anse dei porti – Lampedusa, Pantelleria, nelle Egadi e nelle Eolie – sono metafora della condizione umana (Gesualdo Bufalino ne fa “un pescatore di isole, pronto a rapirne i colori in reticoli sapienti, quasi concrezioni di un paese ideale che esorcizzi il disordine del mondo”). 

L’espressionismo di Pietro Palma squaderna una visione distorta e deformata della realtà, mostra le cose non come sono ma come vengono restituite dal disagio esistenziale. Le opere esprimono una tensione fortemente ricercata, ma anche un carattere vulnerabile, semplice, sensibile.

La solitudine – dell’artista e della natura violata – realizza una visionarietà allucinata, con colori puri e violenti, prospettive sghembe e sbilenche. Il contrasto è manifesto, lascia immaginare una contesa feroce, rivela frustrazioni e tormenti non confessati. Le inquietudini, che “violentano” il pennello, appaiono ricercate, quasi che non facciano parte della natura dell’artista, quasi che Pietro Palma le inseguisse nella convinzione che l’arte abbia bisogno di tormenti e lacerazioni, di un impeto funzionale.

Non so dare una risposta a questa contesa, non sono un critico d’arte. Scrivo della personalità, eclettica e artistica, di Pietro Palma, del quale sono stato amico e estimatore. Era umanamente una persona elegante gradevole e generosa. Si stava bene con lui, perché riusciva a creare, una atmosfera lieta e curiosa. Proponeva pietanze di cucina povera, inventava ricette, preparava un delizioso cous cous alla siciliana, suonava divinamente la chitarra, accompagnandosi con strofe o parole sue. In campagna, a Cimia, o a Manfria, a mare, arrivava anche Rosa Balistreri, cantautrice eccelsa, popolana di straordinaria sensibilità.

Quando c’era lei, Pietro e Rosa incantavano con i loro duetti. Avevano la musica nel sangue, che esprimeva l’anima profonda della loro terra. Si riusciva, con difficoltà invero, a riflettere anche su questioni politiche e sociali, e solo in queste circostanze, Pietro esibiva una rabbia tenuta in serbo con fatica. Una volta se la prese con Gesualdo Bufalino, di cui era grande amico, per una intervista che lo scrittore siciliano aveva rilasciato a l’Espresso e nella quale Gela veniva fatta a pezzi. 

Delle sue opere non amava parlare durante le ore di convivialità; una sorta di pudore, ritengo. Enzo Papa, altro grande amico di Pietro, ebbe dalla moglie, Giovanna, alcuni fogli di appunti, scritti di pugno dal marito. Leggendoli ho creduto che il mio sospetto, che forzasse la sua natura semplice e genuina, trovasse conferma: “L’ambizione mi chiama, ma io sono atterrito dai suoi rischi: Per tutto il tempo ho avuto fame di un significato nella vita. E ora so che dobbiamo innalzare la vela e cogliere i venti del destino ovunque essi guidino la nave.”  E’ quella pulsione a dare significato alla vita, a inseguirlo? “La vita senza significato, scrive Pietro Palma, è la tortura dell’irrequietezza e del desiderio pago: è una nave che anela il mare, eppure lo teme”.

La natura selvatica non gli appartiene. E’ un mio pregiudizio credere che si piegasse al bisogno di farla emergere, seppure a tratti? Forse il fascino di Pietro è suscitato proprio dalla misteriosa convivenza di pulsioni apparentemente inconciliabili: il piacere della semplicità, della convivialità, delle piccole cose, la musica, il buon cibo, l’hobby della pesca subacquea ne fanno in personaggio elegante, colto, gradevole. Poi c’è il non detto, i silenzi, l’animo macerato, il dovere dell’artista di ricreare la condizione ideale per meritare l’arte. 

Interrogativi, enigmi, ambiguità, non fanno parte della sua natura, solare, intima, semplice. La crisalide ha in sé la bellezza che la metamorfosi le donerà. Prospettare apocalissi e intestarsi guerre contro il mondo sbagliato è una forzatura innaturale in un cuore contento. Il rovello è comunque presente e induce la ricerca costante, semmai, di nuove tecniche da sperimentare: l’acquaforte, l’acqua tinta, i drappi ricchi di monili, lustrini, magiche composizioni, deliziose rappresentazioni floreali, antichi scialli neri trasformati in pregevoli capi di abbigliamento. 

I diversi talenti permettono di cogliere costumi tradizioni consuetudini e farne oggetto di ispirazione, al pari delle increspature del vivere sociale, di una vena di romanticismo, dello humor, Sono tratti del carattere di Pietro Palma, il bon vivant e l’artista, che emergono in ognuno dei talenti. “Ogni approdo, ogni sosta – scrive Mario Monteverdi – uno dei suoi mentori, costituiscono per lui una tappa di meditazione pittorica, un momento di emozione visiva”.

Arte figurativa e informale, pittura astratta e “concreta”, universo  lirico degli acquerelli e quello inquieto delle tele, dove esplode la violenza del colore, declinano mondi diversi ma hanno un’unica cifra originale. Forse, come capita ai letterati, Pietro Palma realizza un “alter ego” per non farsi spodestare, per non deragliare, per nutrire la sua creatura, l’arte. Altrimenti non si spiegherebbe perché la quotidianità, le piccole cose, il vissuto quotidiano resistono alle tentazioni dell’altro che è in lui, disposto a fomentare la contesa. 

Talvolta mi pareva che fosse svagato e privo di senso pratico, o rassegnato e disilluso, o pervaso dal fuoco della collera contro le ingiustizie e le dissennatezze. Ma tutto durava poco, emergeva sempre la sua natura lieve e pacata.  Fosse ancora vivo, si atteggerebbe a bonario santone dall’aria spaesata, l’immancabile zuccotto a proteggere la calvizie, a dispensatore di pane con l’olio buono e olive, la chitarra a portata di mano, desideroso di cantare deliziose filastrocche. 

C’è una sua immagine in un ponderoso volume che raccoglie le sue opere e le recensioni dei critici (“Pietro Palma, la figura e le opere”, Enzo Papa), una immagine che lo restituisce alla sua anima semplice e gentile. Lo zuccotto sul capo, il consueto maglione a girocollo, la barba grigia e ben curata, le braccia conserte, le labbra socchiuse, le palpebre abbassate, lo sguardo che tradisce una lieve ironia, Pietro è il ritratto di un mansueto felino, che non ha affatto voglia di andarsene e che ha ancora ha tante cose da fare. Il rimpianto è vivo, vivissimo. 

Gela dimentica. Purtroppo. Trenta anni sono tanti, ma non giustificano affatto l’oblio cui è stato relegato. Le opere di Pietro Palma sono ancora fra noi, sono un po' ovunque. L’arte non si può cancellare. Quando ciò avviene, si cancella la storia, l’anima di una comunità.