L’editoriale/ Ladri di memoria e loro compari: il Grande saccheggio di Gela

L’editoriale/ Ladri di memoria e loro compari: il Grande saccheggio di Gela

«Gela ha incominciato a farsi conoscere al mondo dei dotti ed a rivendicare a sé il suo antico posto per mezzo dei suoi magnifici vasi, dei quali nessuna città della Sicilia, ed oserei dire della Magna Grecia, tanta copia ha restituito, diffondendoli sin dalla fine del settecento in tutti i grandi Musei d’Europa».

Paolo Orsi, l’archeologo che dirige il Museo di Siracusa, dall’inizio del Novecento fino ai primi anni del Ventennio fascista, viene da Rovereto. Il suo è un colpo di fulmine: s’innamora di Gela antica, e ne diventa il nume tutelare. E’ un uomo di animo retto, colto, nemico dell’abuso. Cerca alleati per proteggere la colonia greca dal saccheggio, trova invece infidi interlocutori. 

Centoventidue anni or sono, dopo avere completato la prima breve campagna di scavi, in uno dei suoi primi report, scrive scandalizzato che: “nella più ricca necropoli della Sicilia e della Magna Grecia, abbandonata alla mercé dei primi venuti, ai saccheggi di speculatori coscienti e, di villani incoscienti, migliaia di sepolcri furono aperti, arricchirono scavatori paesani di quattrini e Musei esteri (britannici, Reale di Berlino ecc.) di  superbi vasi profumatamente pagati, ma la scienza e il patrimonio artistico nazionale furono defraudati di inestimabili tesori”. 

I suoi dispacci destinati a Roma sono dei bollettini di guerra. E’ una guerra, infatti, quella che combatte a Terranova/Gela, con alterne fortune. Una guerra impari. Il nemico ha la faccia di galantuomini rispettati e rispettabili; incontrandone uno, bisogna “scappellarsi” o addirittura regalargli un virtuale “baciamo le mani”. I popolani sono al loro servizio, gli altri, appunto, si scappellano.

Orsi aggira l’ostacolo, costruisce una rete di delatori fidati, che oggi chiamiamo collaboratori di giustizia. Spie, insomma, che sorvegliano e riferiscono. Ma non basta trovare gli scavatori di frodo durante il loro lavoro. Nessuno viene punito, nemmeno un giorno di galera per i saccheggiatori. 

Quando Orsi contesta il malfatto al notabile, questi alza le spalle, finge di non sapere, di non capire. Eppure le leggi ferdinandee sono vigenti e sanzionano coloro che trasgrediscono al divieto di appropriarsi dei reperti. Il potere, quello vero, però sta da un’altra parte, e non c’è verso di cambiare le cose.

La Sicilia post unitaria è abbandonata a sé stessa. I potenti godono di impunità, e la loro manovalanza può contare sulla immunità garantita dal padrone. La rapina di Gela antica, è sistematica e si compie a largo raggio. Il centro storico, le aree attigue, i quartieri periferici. Ovunque. Anche la pianura riserva tesori: anfore, monete, statuine, bassorilievi, che trovano posto ancora oggi nei maggiori musei del mondo. 

Il nemico è il padrone di casa, ed è attrezzato: ha denaro e risorse umane. Accanto a lui si agitano i cacciatori d’arte antica, che arrivano da ogni parte del mondo. Dalla fine dell’Ottocento Gela conquista la fama di mercato d’arte. I cacciatori hanno il portafogli gonfio, sono pronti a sborsare qualsiasi cifra, e ne sanno di più dei venditori, anche i più scaltri e colti.

La loro è una professione, o meglio, un business: acquistano e rivendono a collezionisti privati e musei in ogni parte del mondo. Una caccia al tesoro che si conclude sempre con una fortuna nelle mani del predatore. Gela è un porto franco dell’arte antica, e il sito più ricco di tutta la Magna Grecia. I cacciatori di arte se ne stanno negli alberghi di lusso, lontani dal prèdio da saccheggiare, ma vicinissimi, pronti a tirare fuori il denaro. Qualunque cifra venga richiesta, è onorata. Chi, sa di portare a casa tesoro inestimabile. Il traffico cresce di anno in anno, sottosuolo riserva sempre sorprese. Una miniera d’oro.

Il Novecento sta per passare la mano al secolo delle Grandi Guerre, che si combatteranno con armi micidiali e decideranno i destini del mondo. Per intanto negli anni di Orsi a Gela gli europei si godono una rara pausa di pace seppur inquieta. Chi volete che si accorga del “condottiero” solitario che affronta il fronte armato di denaro dei devastatori della memoria antica? I saccheggiatori veri, non i tombaroli, che scavano per conto terzi e talvolta restano sotto le buche che hanno scavato, e si sono fatti la fama di banditi. 

I predatori stanno in alto, sono i mandanti. I latifondisti di Gela imparano in fretta: hanno messo a cultura vaste estensioni di terreno, trovano ovunque reperti archeologici; basta scavare pochi metri. Presto saranno consapevoli della fortuna che gli piove addosso, i reperti hanno compratori danarosi. I tombaroli sono solo la fanteria armata di baionette che fruga in prima linea fra le tombe antiche e porta alla luce quello che trova; magari, all’inizio, ignorando di che si tratta.

Non ci sono carabinieri, ma i padroni di casa a custodire e sorvegliare. Si scava sottoterra perché sopra non c’è più niente, o quasi. Monumenti e templi, colonne e grandi sepolcri, sono stati distrutti e saccheggiati nel corso dei secoli, per utilizzare il materiale di ogni fabbrica. Gela dispone di creta, non ha pietra né marmi.

Eraclea, voluta da Federico II, viene costruita con le pietre di Gela antica. Gli arabi che arrivano in Sicilia nell’827, e vi rimangono fino al 1091, vedono per ultimi dal mare le colonne dei vecchi templi geloi, situati nelle vicinanze del fiume Gela, allora navigabile, e chiamano il corso d’acqua “wadi as sawari”, il fiume delle colonne. Rimarrà, una colonna dorica che giace sul suolo dopo un crollo, nella contrata Mulino a Vento, ex Parco delle Rimembranze, sopra il Bosco Littorio. 

La razzia, impunita, durerà almeno dieci anni, tra il 1900 e il 1910. E poi ricomincerà, ancora più alacre.  Nel Ventennio e con la Repubblica.  E’ caccia grossa, senza soluzione di continuità. Il saccheggio si ripeterà anche negli anni quaranta e cinquanta. Chi scava le fondamenta di un nuovo edificio s’imbatte di frequente in piccoli e grandi tesori. La “truvatura” la chiamano. Ed a nessuno passa per la testa che si tratta di una rapina a danno del patrimonio di tutti.

Nessuna remora, né morale né culturale, solo improvvisi arricchimenti. A metà degli anni cinquanta, arrivano gli archeologhi, finalmente. Piero Orlandini, Dino Adamastenu, due personaggi che salveranno il salvabile. L’ultimo assalto, stavolta con lo stile dei rapinatori più raffinati, si consumerà ai danni del monetario del Museo di Gela. La mano è gelese, anche stavolta. 

Torno a Paolo Orsi ed alla sua epopea. I suoi  dispacci di guerra giungono puntuali a Roma, ma non scaldano i cuori di alcuno. Terranova assiste, inerte, alle ruberie: non sa, non vuole sapere; e anche se sapesse nulla potrebbe fare contro i padroni della terra. I dispacci riferiscono di sconfitte e rari successi; leggendoli, si percepisce la rabbia, il rammarico di non avere potuto fare di più.

“Presento qui alcune primizie gelesi, dovute in parte a scoperte recenti, in parte a scoperte vecchie ma neglette; sono un tenue indizio della ricchezza archeologica di quella città cotanto abbandonata e spogliata. Di più e di meglio potrà ancora ripromettersi dalla feracità di un suolo sfruttato ma non esausto”. 

In un altro dispaccio, fra lo sconcerto e la rabbia, l’archeologo annota: “Gela, frugata e rifrugata nelle sue necropoli urbane e suburbane, pur sembrando esaurita, restituisce sempre nuove prove dell’antica ricchezza e benessere dei suoi abitanti”. 

Orsi non si rassegna, trova tracce di scavi eseguiti su larga scala in più località, centinaia di sepolcri manomessi, e denuncia “…Il lassismo delle istituzioni ha lasciato campo libero alle attività devastatrici, il vergognoso oblio in cui il governo ha lasciato tale località…, dove pare che le leggi archeologiche non esistano; tutti scavano e vendono; incombe l’obbligo al governo di procedere con inflessibile rigore contro gli speculatori d’ogni grado e condizione, che per troppo tempo esercitarono il loro triste mestiere”.

Paolo Orsi ricorda l’unico intervento eseguito «dal 1864 al 1900 per conto della nazione in un suolo ancora quasi vergine e fertilissimo, totalmente poi abbandonato durante 36 anni alla mercé degli speculatori d’ogni maniera, che, impassibili le autorità, per sette lustri di seguito consumarono rovine irreparabili»

Niente di nuovo, direte. Anche Gela moderna è stata devastata. Dall’abuso e dalla speculazione fondiaria, giusto come più di un secolo fa, in concomitanza con la devastazione ambientale. La speculazione fondiaria, negli anni sessanta, settanta ed ottanta, ha origine e successo grazie soprattutto ai proprietari terrieri, che vendono il terreno agricolo al prezzo di area fabbricabile, ad acquirenti che realizzano il manufatto  in un terreno sprovvisto di ogni servizio: strade, acqua, luce, condotte fognarie ed altro. Gli abusivi sono gli acquirenti, i “tombaroli” della casa illegale; i beneficiari sono le grandi famiglie della speculazione fondiaria, che si arricchiscono con un semplice tratto di matita su un foglio bianco.

Il business è lucroso, e coinvolge i professionisti della speculazione fondiaria: geometri, ingegneri, architetti, avvocati e soprattutto notari, che non si accorgono di stare vendendo fazzoletti di terreno in un’area destinata all’agricoltura. Non è una chiamata di correo; voglio segnalare l’area in cui si è pianificato il disastro, nulla di più. L’etica della responsabilità, tuttavia, non ha confini, ma gradi di responsabilità. Anche gli abusivi hanno la loro, eccome. Primi per la legge, ultimi nella scala delle responsabilità. 

La seconda grande rapina si consuma a danno del territorio, dopo quella perpetrata nell’ottocento e nel novecento. Dopo avere distrutto gli edifici superbi di Gela antica e sbranato il sottosuolo, non rimaneva che saccheggiare il suolo per finire l’opera. 

Quel che più sconcerta e reclama giustizia, è un fenomeno forse unico nella sua elementare drammaticità. Sono le stesse famiglie, gli stessi proprietari del prèdio, ad arricchirsi, anche stavolta. Si potrebbe redigere una lista di nomi: ricorrono in larga parte, ad un secolo di distanza.

Come Terranova fu derubata della memoria storica, Gela è stata derubata del territorio. Quartieri popolosi della città sono ancora oggi un suburbio triste e vergognoso, il lascito di una partita giocata da una classe, i proprietari terrieri, a danno dell’altra, il popolo minuto, sulla quale si ha l’obbligo morale di ripensare. Se i saccheggi si sono ripetuti, cancellando la storia e la bellezza, significa che la classe preminente ha potuto contare di sherpa ben pagati. 

Quando visitai a Los Angeles il Paul Ghetty Museum, alla fine degli anni novanta, feci una sconcertante scoperta: il salone dedicato alle anfore provenienti da Gela antica. Oggetti stupendi, davanti ai quali folle di visitatori indugiavano. Ho provato orgoglio davanti a tale testimonianza di opulenza artistica e bellezza, poi lo stesso sgomento e rabbia di Paolo Orsi.

E mi chiesi, senza trovare risposta, come sia potuto accadere che Gela antica sia altrove, ovunque, nei musei siciliani, nazionali, internazionali, e non laddove ha il diritto di trovarsi. Voglio credere che i discendenti delle grandi famiglie non hanno fatto buon uso dei lasciti o non siano affatto fieri del loro benessere, nel caso contrario. E’ poco, lo so, ma che resta da fare, se non sapere com’è andata.