Editoriale/ Gela versus Eni, confronto impari

Editoriale/ Gela versus Eni, confronto impari

Sono in tanti, e lo scrivente è fra questi, che dovrebbero fasciarsi la testa e recitare il mea culpa, per avere abboccato all’esca delle partecipazioni statali.

I mezzi di produzione in mani pubbliche è il karma della sinistra ed il prezzo da pagare al solidarismo della dottrina cattolica. L’ideologia ha fatto la sua parte, la fede nella superiorità della mano pubblica pure, e l’Ente Nazionale Idrocarburi, guidato da quello straordinario capitano d’industria che fu Enrico Mattei, non ebbe ostacoli, entrando in Sicilia accolto a braccia aperte; rappresentava la medicina giusta per il grande male della povertà e del sottosviluppo.

Giusto come nel 1943, quando gli alleati sbarcarono a Gela come liberatori, accolti dal plauso popolare. Sia la miseria quanto la libertà, sono buoni motivi per abbracciare i liberatori senza andare troppo per il sottile, non ci si può pentire di ciò, beninteso. La fiducia in Mattei fu ben riposta, quella sull’Eni, invece no; si è rivelata un cattivo affare alla resa dei conti. Ha funzionato per il lavoro, ma non per il progresso. Le partecipazioni statali hanno fatto di tutto per dimostrare che quell’amore per i mezzi di produzione in mano pubblica era malriposto

Il credito non ebbero bisogno di guadagnarselo. Lo Stato siamo noi, come recita lo slogan delle Coop, e quindi che cosa può esserci di meglio? L’aspetto valoriale in un mondo fortemente segnato dal profitto, credere nella primazia della mano pubblica affidata ai suoi competitori non è stato solo ingenuo, ma anche incauto.

I buoni propositi dei pesci che abboccarono all’esca meritano l’indulgenza, assolvono dall’autoflagellazione, ma per il resto, i fatti confermano che quegli errori, dovuti anche all’impreparazione ed all’incompetenza, hanno provocato danni irreparabili, e continuano a provocarne ancora oggi, tanto da sollecitare una rivisitazione di quegli anni. C’è un solo modo per farlo: imporre il caso Gela all’attenzione nazionale e, perché no?, europea, come una esperienza sbagliata da non ripetere ed una questione morale e civile da affrontare. L’obiettivo non dovrebbe essere l’identificazione dei colpevoli e passarli per le armi, ma di riconoscere quel che di sbagliato si è fatto e cercare di porvi rimedio. Il metodo Mandela, insomma, che ha fatto del Sud Africa una nazione moderna e una società perfettamente integrata. 

Non mi pare che si stia andando verso questa soluzione. Gela cerca di trarre profitto dalla sua storia e dalla memoria, ancora miracolosamente presente, della sua antica civiltà, attraverso le prime timide iniziative di carattere regionale (la mostra dedicata all’isola di Ulisse), e dalla sua ubicazione strategica nell’ultimo conflitto mondiale, con la commemorazione dell’anniversario, il 80esimo, dello sbarco americano sul golfo di Gela. Niente da eccepire, naturalmente, ma non saranno queste iniziative ad assicurare a Gela la svolta nel ventennio che sarà ricordato per i funerali silenti della petrolchimica. Ricordare la liberazione è un tributo doveroso alla memoria nazionale ed alla democrazia occidentale, ma non c’è nulla che non sia stato discusso, dibattuto, analizzato. La comunità gelese è stata risparmiata dalle mille navi che affollarono il golfo, ma il suo ruolo è inesistente. Lo stato dell’arte pretende altro. 

La festa è finita, l’Eni smantella senza darsi pensiero delle bonifiche delle aree abbandonate, mentre sfugge alle leggi ambientali che lo obbligherebbero a rimettere a posto il territorio, Piana del Signore, e nei processi che lo vedono sul banco degli imputati per avere provocato danni alla salute dei cittadini, si trincera dietro l’inesistenza di prove che possano provare la responsabilità. Gli stiamo rimproverando di stare difendendosi in un’aula di tribunale?

No, non è questo il tema: vogliamo ricordargli di avere sborsato un bel gruzzolo ad una concessionaria di auto danneggiata dalle polveri acide. L’Eni ha firmato una transazione e pagato per le auto danneggiate e si è rifiutato di riconoscere in tribunale le conseguenze dell’inquinamento ai familiari di bimbi nati con malformazioni, sulla base di una ineccepibile contabilità statistica. Il riconoscimento del danno alla concessionaria rende moralmente insopportabile accettare la politica aziendale dell’Eni; né la decisione del ministero dell’Ambiente di rappresentare la parte civile nel processo, allevia il danno o assolve lo stesso il ministero da una oggettiva acquiescenza ai ritardi nella bonifica, che non lo hanno visto brillare per la volontà manifestata. 

C’è più di un motivo per indignarsi. 

La dipendenza dall’Eni, inoltre, è una palla al piede. Confidando sulle decisioni favorevoli dell’Europa, l’Eni ha investito sui biocarburanti a Marghera, Livorno e, soprattutto, a Gela. Ma si è fatto i conti senza l’oste, cioè la Germania che non si è tirata indietro sul processo di decorbanizzazione, ma non ha accettato l’uso dei biocarburanti proposto dall’Italia per la mobilità,  sicché l’Eni è rimasta con il cerino in mano, trascinandosi i piani di investimenti di Gela. 

Il colosso dell’industria energetica italiana ha incassato colpi un po' ovunque e non può prendersela che con se stessa, perché la politica estera nel settore energetico (e non solo), è stata di sua esclusiva competenza sin dai tempi di Enrico Mattei. E qui ritorna la solfa: finché c’era lui, che sbaragliava il campo, poteva andare bene, ma da quando Bascapè lo ha tolto di mezzo, facendo tirare un sospiro di sollevo ai potenti competitor, l’Eni ha trattato su ogni tavolo per restare a galla, con ben più modesti risultati e alterne vicende.

Ha ingabbiato l’Italia nella Libia ingovernabile al prezzo ingente di risorse nell’intelligence e di una sorta di paziente attesa nella ignobile vicenda dei lager per rifugiati e del traffico di sventurati verso la Sicilia. Ha reso impotente l’Italia, che chiedeva giustizia per il ricercatore italiano Regeni, torturato ed ammazzato come un cane per spionaggio; ha mantenuto per decenni una dipendenza energetica dalla Russia, addirittura aggravandone il peso nel 2014 in occasione del colpo di mano russo in Crimea, con il risultato di avere reso debole il Paese e l’Europa, dopo le sanzioni alla Russia all’indomani dell’invasione della Ucraina. Nonostante ciò, l’attuale amministratore delegato, Claudio Descalzi, naviga in acque tranquille con ben cinque premier e sei governi, segno incontrovertibile di una fiducia trasversale che ha rari precedenti. 

Quanti margini restano a Gela per scommettere sulla sua sorte legata all’Ente Nazionale Idrocarburi? E di quante (e quali) volontà  Gela può contare per portare l’Eni su un tavolo di confronto equo e sereno? Le partecipazioni statali sono un’azienda guidata, di fatto, dagli azionisti privati, nonostante la golden share che affida al ministero dell’Economia una sorta di controllo. Sono i dividendi degli azionisti che contano, come dimostra la lucrosissima prebenda incassata proprio dall’Eni, con le speculazioni sui prezzi del gas. Affari d’oro. Pessimismo siderale, dunque. Come uscirne, se non auspicando almeno maggiore pragmatismo del management Eni. 

Gela soffre di tante cose, ma al primo posto c’è la salute ed il lavoro. Fuori dall’aula del tribunale, l’Eni, e non le sue affiliate, dovrebbe sentirsi impegnato ad offrire alla comunità presidi di buon livello. Ci sono settori, come l’oncologia e le malattie mentali, abbandonati dal sistema sanitario regionale affidati ai capibastone legati alle correnti partitiche, c’è la bonifica delle aree che può diventare un volano di sviluppo, attraverso iniziative imprenditoriali innovative, che in Paesi come la Germania, dove le leggi si rispettano, hanno cambiato il volto di aree industriali come la Ruhr. 

Possibile che la mentalità coloniale – prendi tutto e scappa – sopravviva nel terzo millennio, senza che la comunità da una parte, e il colosso dell’energia dall’altra, si sentano impegnati in una operazione doverosa di salvataggio? Sono solo le leggi del mare a rendere obbligatorio il salvataggio di chi è con l’acqua alla gola? Chi si è fatto adescare dall’ideologia e dal fascino del capitano d’industria può accampare qualche giustificazione, la buona fede, ma chi ha sotto gli occhi, ogni giorno, lo sfascio, specie se ricopre responsabilità istituzionali, nemmeno questo.