Gela, luglio 1943. Prigionieri italiani usati come scudi umani dagli american

Gela, luglio 1943. Prigionieri italiani usati come scudi umani dagli american

Spesso sui libri si legge che durante lo sbarco americano in Sicilia i soldati italiani si arresero vuoi per codardia, vuoi per l’esiguità o esaurimento delle munizioni;

falso per quanto riguarda la codardia, vero per quanto riguarda le munizioni. Non risponde a verità che i soldati italiani, in tale occasione, pensarono soltanto a fuggire e che soltanto quelli tedeschi seppero tener testa agli invasori, cosa questa non rispondente a verità. Esistono precise testimonianze che attestano che le quattro divisioni italiane Assietta, Aosta, Livorno e Napoli furono sempre presenti sul campo di battaglia ed operarono in modo da rendere possibili notevoli movimenti tattici.

Infatti, ad esempio durante lo sbarco, numerosi e pregnanti furono gli atti di eroismo dei militari italiani, in particolare quelli della Divisione “Livorno”, i quali, anche se per breve tempo, riuscirono a rallentare l’avanzata dell’imponente armata americana; di essi si ricordano il Caporal maggiore Cesare Pellegrini, che trovò gloriosa morte nel fortino di Porta Marina, il Sottotenente Carrista Angiolino Navari che col suo carro armato, nei pressi di Piazza Umberto I, riuscì a impegnare una compagnia di soldati americani, il Maggiore Enrico Artigiani, il Col. Mario Mona e tante altre centinaia e centinaia tra ufficiali e soldati che con il sacrificio della loro vita difesero il patrio suolo; ad alcuni di essi alla memoria furono conferite delle medaglie, tra esse quella d’oro al Col. Mario Mona.

Ma la motivazione della resa di interi reparti italiani che combatterono strenuamente a Gela, probabilmente fu dovuta anche ad un altro motivo.

Lo scrivente, in merito ad una ricerca nell’archivio storico militare di Roma, è nelle condizioni di dimostrare che sicuramente un caso di resa di un reparto italiano, avvenuto nella prima giornata dello sbarco Alleato a Gela, fu dovuto al fatto che gli americani in un’azione di guerra avanzarono dietro una moltitudine di prigionieri italiani, questi ultimi dunque “utilizzati” come scudi umani, tant’è che i nostri soldati allora non poterono fare altro che arrendersi anziché sparare sui loro commilitoni; già lo sbarco sulla spiaggia di Gela era iniziato fin dalle ore 3,00 e posizione su posizione i soldati italiani arretrarono, martellati incessantemente dai cannoni delle navi americane.

Mi piace qui reiterare un passo riportato nella “Relazione cronologica degli avvenimenti”: “…Ore 9,20: il Col. Giuseppe Altini comunica che la 49° btr. si è arresa perché il nemico veniva avanti facendosi coprire dai nostri soldati presi prigionieri…”. Una comunicazione di tre righe su una pagina ingiallita dal tempo, a firma del Col. Orazio Mariscalco, rimasta sconosciuta all’interno di un faldone, che mette in luce per la prima volta in assoluto un caso così clamoroso. Certamente questo espediente, purtroppo vincente, nulla vieta a far pensare che sia stato utilizzato dai comandi americani anche in altre occasioni.
Un altro episodio accaduto ai soldati italiani, presi prigionieri dagli americani dopo la battaglia di Monte Castelluccio dell’11-12 luglio 1943, si riferisce al racconto del Ten. Col. Ugo Leonardi il quale, assieme a diversi ufficiali medici con il bracciale della Croce Rossa Internazionale, fu schiaffeggiato ed umiliato. Solo alcuni di questi episodi sono stati, con molto ritardo e a oltre settant’anni dagli eventi, ricordati e menzionati pur con scarsissima rilevanza.
L’aver utilizzato soldati prigionieri italiani come scudi umani, quindi, rappresenta un’altra pagina nera dello sbarco Alleato del 1943 in Sicilia che si aggiunge alle precedenti, scritta ancora una volta dai comandi americani in sfregio all’etica militare e soprattutto ai dettami della Convenzione di Ginevra sui prigionieri di guerra.