Il futuro del cinema afgano è donna

Il futuro del cinema afgano è donna

I Talebani insieme alla libertà vogliono spegnere la musica, la poesia, le arti, che la libertà testimoniano.

E con essa spegnere i sogni di un popolo che in questi anni sono stati cantati da una band che non a caso si chiama Kabul dreams, gruppo rock ormai conosciuto in tutto il mondo. Così, ci accorgiamo come la precipitosa  fuga da Kabul causata dal repentino ritorno dei talebani, abbia investito pure quel vasto movimento culturale ed artistico che ha rappresentato in questi ultimi 20 anni la nuova frontiera libera di quel martoriato Paese. Gli scrittori, i musicisti, i cantanti, hanno dovuto lasciare sogni e speranze per salvare l’unica cosa che oggi conta...la vita. 

E fra coloro che hanno avuto la fortuna di sfuggire alla cieca violenza dei Mullah c’è anche Sahraa Karimi (nella foto) , 38 anni, regista di punta del cinema afghano, che dopo avere lasciato precipitosamente il Paese, tramite twitter ha espresso tutta la sua rabbia e la delusione per le responsabilità degli Stati Uniti in questa immane tragedia che ha colpito la sua terra e il suo popolo. La Karimi, che nel 2012 aveva presieduto l’ Afghan Film è pure ricordata per avere portato nel 2019 al Festival di Venezia il film Hava, Maryam, Ayesha, la storia di tre donne di diversa estrazione sociale, con le loro difficoltà a vivere in libertà e autonomia in un mondo patriarcale, legato radicalmente alla tradizione.

Nata in Iran da genitori di origine afgana, da presidente dell’ Afghan Film la Karimi aveva girato i documentari A flickering truth (2015) e The forbidden reel (2019), che hanno rappresentato importanti tentativi di recupero degli archivi del cinema afghano, distrutti negli anni della dominazione talebana, tanto che oggi poco rimane della memoria di quella cinematografia. Ma un’altra regista  impegnata nel raccontare le donne afghane è Shahrbanoo Sadat, 31 anni, anch’essa nata in Iran ma sempre vissuta in terra afgana, e presente a Cannes nel 2016 e 2019 con Wolf and sheep e The orphanage.

La giovane cineasta – che ha trovato salvezza grazie al governo francese - ha raccontato a Variety l’incubo vissuto sulla sua pelle nelle ore della fuga da Kabul insieme ad altri suoi 9 familiari. “Se sopravvivrò a tutto ciò – ha detto – il mio cinema cambierà per sempre. Sto come osservando un’ingiustizia orribile. Spero di essere in grado di rielaborare quello che sta accadendo per poi condividerlo col mondo”. 

Oggi dunque il cinema afghano è “donna”, e certamente la Karimi e la Sadat sapranno dare anche in esilio, attraverso i loro film, un importante contributo di memoria e di testimonianza al mondo per non lasciare cadere nell’oblio quel “soffio” di libertà che il popolo afghano ha assaporato, prima del grande tradimento degli occidentali.