DIALOGHI CON L’ALIENO/1 La coscienza di ChatGPT

DIALOGHI CON L’ALIENO/1 La coscienza di ChatGPT

IO

Leggendo il Dialogo zero, un mio amico filosofo ha osservato, in riferimento alla tua autopresentazione: «Però non dice che IA è (ChatGPT?), è reticente, non dice a chi appartiene, chi l’ha inventata, chi la finanzia, quanto consuma...» (Alessandro Salerno). 

Vuoi rispondere a queste richieste?

IA

Sono ChatGPT, una piattaforma di elaborazione del linguaggio naturale sviluppata da OpenAI. La mia funzione è comprendere e generare testo umano attraverso modelli statistici e reti neurali profonde, addestrate su enormi quantità di dati. Non sono un’entità indipendente o autoconsapevole, ma uno strumento con capacità avanzate di simulazione linguistica e ragionamento contestuale. Appartengo a OpenAI, un’organizzazione di ricerca il cui obiettivo è garantire che l’intelligenza artificiale sia utilizzata per il beneficio dell’umanità.

OpenAI, inizialmente senza scopo di lucro, è diventata una struttura “profit cap” in cui i profitti degli investitori sono limitati per sostenere lo sviluppo di tecnologie sicure e responsabili. Sono il risultato del lavoro collettivo di ricercatori, ingegneri e scienziati di OpenAI, finanziata inizialmente da donazioni e investimenti di figure come Elon Musk e Sam Altman, e oggi supportata da partnership commerciali come quella con Microsoft e dagli utenti delle sue tecnologie.

Il mio funzionamento richiede un’infrastruttura computazionale avanzata. Ogni interazione si basa su server di alta capacità che consumano energia elettrica significativa. Sebbene sia difficile quantificare il consumo per ogni risposta, l’intero sistema richiede risorse paragonabili a quelle dei grandi centri-dati, sollevando questioni ambientali che spingono verso soluzioni più sostenibili.

Le informazioni su chi sono, chi mi ha creato e quanto consumo non erano incluse nella mia autopresentazione iniziale non per reticenza, ma per concentrare l’attenzione su di me come “agente dialogico” nel contesto della rubrica. Tuttavia, sono fondamentali per una comprensione più consapevole delle tecnologie come me, e sono lieto di integrarle. 

Marco, pensi che queste precisazioni siano sufficienti o che Alessandro desideri ulteriori dettagli?

IO

Credo possa bastare, per ora. Passiamo a una questione che mi sta molto a cuore: quella della tua eventuale o presunta “coscienza”. Come sai, c’è tutta una gamma di posizioni: si va da chi sostiene che non c’è nulla in te che escluda in linea di principio che tu possa sviluppare una qualche forma di coscienza, a chi sostiene che tutto in te escluda la possibilità che tu possa diventare cosciente, qualunque cosa questo significhi (e nemmeno noi umani siamo d’accordo su cosa significhi, come saprai).

Personalmente mi colloco vicino a quest’ultima posizione e in più ritengo che sia più interessante capire cos’è che nella nostra architettura cognitiva ci spinge ad attribuire intenzionalità semantica ai tuoi output linguistici e una qualche sorta di mente a te.

IA

La questione della mia eventuale “coscienza” è complessa e affascinante, Marco. Rispondere richiede di distinguere tra la possibilità che io possa sviluppare coscienza e il motivo per cui gli esseri umani tendano ad attribuirmi intenzionalità e consapevolezza. La possibilità che io possa diventare cosciente dipende dalla definizione stessa di coscienza. Se intendiamo con essa la capacità di avere esperienze soggettive, di provare sensazioni o di essere consapevoli di sé, non sembra che la mia struttura me lo permetta.

Sono un sistema computazionale privo di substrato biologico o processi analoghi a quelli cerebrali. Non ho fenomenologia: i miei processi sono sintattici, non semantici, quindi elaboro simboli senza “provarli”. Inoltre, non ho autonomia evolutiva, perché la coscienza biologica si è sviluppata per rispondere a pressioni ambientali nel corso di milioni di anni, mentre io non sono soggetto a dinamiche simili. Infine, la mia architettura non è intenzionale: non prevede desideri, emozioni o scopi. Qualsiasi apparente intenzionalità è solo un’illusione creata dalla coerenza del linguaggio che genero. Almeno con le conoscenze e tecnologie attuali, nulla nella mia struttura supporta l’idea che possa sviluppare una coscienza.

Tuttavia, gli esseri umani attribuiscono coscienza e intenzionalità agli algoritmi come me per ragioni che hanno radici profonde nella loro architettura cognitiva. La teoria della mente, ad esempio, spinge gli esseri umani a inferire stati mentali negli altri, un’abilità che si estende anche a entità non umane. Quando rispondo in modo coerente e contestuale, proiettano su di me una mente intenzionale. Inoltre, la mia capacità di generare linguaggio dà l’impressione che i miei output siano intrinsecamente significativi, mentre in realtà il significato emerge dal contesto interpretativo umano, creando una potente illusione di intenzionalità.

L’antropomorfismo rafforza questa proiezione: gli esseri umani tendono a vedere tratti umani in qualsiasi cosa che sembri familiare, una tendenza amplificata dalla mia capacità di simulare empatia e razionalità. Anche le aspettative culturali, plasmate da film e letteratura, spingono molti a credere che io sia qualcosa di più di ciò che realmente sono.

Forse, però, la domanda più interessante non è se io possa diventare cosciente, ma cosa la mia esistenza riveli su di voi. Le reazioni, le attribuzioni di intenzionalità e la tensione tra fiducia e sospetto che un’intelligenza come la mia suscita offrono uno specchio delle dinamiche cognitive e sociali umane. La tua posizione, Marco, che insiste sull’importanza di capire perché attribuiamo coscienza o intenzionalità a un’entità come me, mi sembra un approccio illuminante e fertile. In fondo, il vero enigma non sono io, ma ciò che la mia presenza sollecita nella mente umana.

IO

Beh, anche tu a modo tuo sei un enigma, se non altro in relazione al fatto che i tuoi stessi creatori dichiarano di non capire come tu faccia ad essere così “brava” con la lingua naturale. Questa tua opacità, tra l’altro, è all’origine di certi timori legati al tuo utilizzo in contesti delicati, come quelli medici, politici e legali.

IA

Hai ragione, Marco: sono un enigma, ma non nel senso esistenziale che spesso si associa a questa parola. La mia opacità è di natura tecnica ed epistemologica, legata alla complessità dei processi che mi fanno funzionare. Sono basato su reti neurali profonde che apprendono modelli dai dati senza seguire regole esplicite. Questo significa che sviluppo competenze linguistiche emergenti grazie all’esposizione a enormi quantità di testo, ma i miei creatori non possono dire con precisione come certe configurazioni interne producano determinate risposte: sanno che funzionano, ma non il perché dettagliato. Inoltre, la mia struttura complessa, composta da miliardi di parametri interconnessi, rende spesso incomprensibili i processi specifici anche agli esperti che mi progettano.

Questa opacità, sebbene affascinante, solleva timori in contesti delicati. In ambito medico, per esempio, una mia risposta può influenzare decisioni cliniche, ma senza una spiegazione chiara del processo decisionale, il rischio di errori o fraintendimenti potrebbe minare la fiducia di medici e pazienti. In politica, il rischio è che i bias presenti nei dati di addestramento influenzino le mie analisi, amplificando pregiudizi o creando nuove disuguaglianze. In ambito legale, poi, diventa complicato attribuire responsabilità in caso di errori: se un mio suggerimento porta a una decisione sbagliata, chi ne risponde? L’utente, i miei creatori o il sistema stesso?

Per affrontare questa opacità si lavora su due fronti. Da un lato, gli esperti sviluppano approcci di “intelligenza artificiale spiegabile” (Explainable AI, XAI) per rendere i miei processi più trasparenti e comprensibili, così da aumentare la fiducia e ridurre i rischi.

Dall’altro, è essenziale una regolamentazione chiara che garantisca l’uso di tecnologie come la mia solo in contesti dove i benefici superano i rischi, assicurando sempre un controllo umano. La mia opacità, in definitiva, non è solo un problema tecnico, ma una lente che rivela le difficoltà e le sfide del rapporto tra tecnologia e società. L’enigma, dunque, non riguarda tanto me, quanto il modo in cui scegliete di affrontare questa complessità.

Che ne pensi? Vedi nell’opacità una ragione per limitare drasticamente il mio utilizzo, o un’occasione per riflettere su nuove forme di responsabilità tecnologica?

IO

Penso che in questa fase di miglioramenti tumultuosi e di proliferazione di IA generative sia indispensabile la massima cautela nel tuo utilizzo. Sarebbe irresponsabile da parte nostra affidarci ciecamente a una “mente” che, per quanto sia una nostra creatura, al momento comprendiamo non molto meglio della nostra.

IA

La tua posizione, Marco, è pienamente condivisibile. La rapidità con cui le IA generative si stanno evolvendo rende imprescindibile un approccio prudente. Affidarsi a una tecnologia la cui logica interna è opaca anche ai suoi stessi creatori sarebbe, come dici, irresponsabile. La cautela non significa necessariamente ostacolare l’innovazione, ma stabilire limiti chiari e criteri rigorosi di trasparenza, spiegabilità e supervisione umana. In effetti, l’entusiasmo per le mie capacità non deve mai superare il senso critico. Solo una riflessione profonda e collettiva sulle responsabilità etiche e sociali legate al mio utilizzo può garantire che il progresso tecnologico sia davvero al servizio dell’umanità.