Il mio Sessantotto1/Gela viveva la sua epopea del petrolio

Il mio Sessantotto1/Gela viveva la sua epopea del petrolio

Non sono mai stato incline alle rivoluzioni. Né a quelle letterarie fra i banchi di scuola né a quelle (figurariamoci!) vissute direttamente nelle piazze.


Sono trascorsi tanti anni e in questi giorni si parla e si scrive del cinquantenario del Sessantotto.
Ricordo con un pizzico di nostalgia (!?) che nel ’68 si formò in Italia – soprattutto al nord, ma anche negli Usa e in molti Paesi europei – un movimento giovanile di contestazione. Era formato da studenti e da una buona percentuale di operai per contrastare la gerarchia del potere e del sapere, sotto il profilo culturale. Tutto ciò sotto la spinta delle idee marxiste di quel periodo.

Ho un cognome “germanisi”, ma appartengo al sud, all’estremo sud del nostro Paese, e da noi le “rivoluzioni” giungono per via di echi. Siamo echidipendenti e viviamo di passionalità e di fatalismo; siamo come i colleghi messicani: abbiamo ereditato l’arte dell’attesa e il sole che ci batte a picco sulla testa, ubriacandoci undici mesi minimo su dodici.

Ma qualcosa di quel ’68 è rimasto anche a Gela? Certamente si, ma di larvato.
Alla periferia di Ragusa c’è una viuzza che si chiama “I ragazzi del ‘68”. Da noi a Gela c’è via Pisticci!

Cosa è rimasto per i posteri?
Gela mi ospita del 1963 e ci vivo bene; il ’68 era quello che mi mostrava la televisione di Stato e i giornali non di parte. La musica, le parole delle canzoni di Celentano furono il mio ’68: un nulla, perché già si facevano strada una schiera di politicanti nostrani privi di ideali, ma sessantottini di comodo: sindacalisti, sensali del lavoro, questuanti di sovvenzioni statali a fondo perduto, molto perduto!
Vi abboccai; vi abboccammo in tanti: marinari, contadini della Piana, studentelli, qualcuno dalla penna facile.

Mi abbandonai, ci abbandonammo, anema e core, all’unica realtà di quegli anni, rappresentata dal Petrolchimico in piena attività produttiva; in grande espansione a livello mondiale, sulla scia di una eredità lasciata da Enrico Mattei, prima e dopo la tragedia di Bescapè.

A Gela il reale ’68 si andava realizzando attraverso la presa di coscienza delle donne, che dalle case dei bassi o da quelle sopraelevate volevano impiegarsi come segretarie all’Anic; come commesse, come patentate per condurre liberamente l’automobile; cioè come una del nord, come gli studenti del nord che lottavano per il “6 politico”, come gli operai che, uniti fra di loro, lottavano oltre che per un salario più ricco, anche per una mensa moderna, e non più per un piatto di polenta o di “riso amaro”, come in quel bel film con la Mangano che ho visto a Gela in una sala molto affollata.

Quel ’68, indirettamente, mi ha fornito l’illusione che attraverso una certa letteratura, attraverso un recital di poesie, attraversando la Sicilia potessi cambiare il mondo, e migliorarlo.
Nei giorni del ’68 nostrano, la mia rivoluzione erano i vari Pasolini, i vari Danilo Dolci, i romanzi di Moravia e le poesie di Ungaretti. I movimenti e le poesie underground; i recital fra i pescatori delle coste siciliane, con il Verismo verghiano (un ’68 ante litteram).
Il ’68 gelese era anche rappresentato dalla conquista della Lambretta e della Cinquecento, per le gite fuori porta (!), verso Butera o Licata, oppure alla conquista del lago Biviere.

C’era il gusto di sognare ad occhi aperti; fra un inquinamento e un tramonto dal pianoro di Montelungo.
Vivevo il ’68 fra le invenzioni sociali di Serafino Lo Piano, il poeta dei “Crocifissi sopra i canterani”, oppure per quel “Uomo del nord tu non vincerai”.
Non si trattava di razzismo, ma di una filosofia di vita dettata dal contingente, fra petrolieri e la stirpe dei raccoglitori di cotone di un tempo non molto lontano.
Il ’68 era la ricreazione di una costante grecità, rinverdita da umanisti che si chiamavano Nunzio Sciandrello, Nicolino Di Fede.

La rivoluzione culturale del gelese passava attraverso il loro umanesimo, dove io mi tuffavo senza pericolo di affogare. La televisione ci mostrava i cortei di Milano, di Torino; I Sessantottini all’assalto; per me quando accendevo la televisione si spegnevano le stelle, come il futurista Marinetti che voleva uccidere il chiaro di luna.

Il mio ’68 lo vivevo attraverso la sana politica del dottore Nunzio Guttadauro, sindaco di Gela dal 1965 al 1967, che precedeva la “rivoluzione” studentesca ed operaia, e la esemplare politica portata avanti da Giovanni Altamore, “nel rispetto dell’umanità di ciascuno che costituisce l’essenza della modernità occidentale”.

Intanto, in quei giorni, potevo anche sorridere per la intelligente ironia dell’amico agrigentino che veniva a trovarmi.
Era uno scrittore e un poeta affermato delle ultime generazioni; su La poesia erotica del Novecento, edizioni Newton Compton di Roma, apparve questa sua poesia intitolata “Numeri di lei”, vi si legge: “Mi spoglia, si spoglia/ ha fatto il sessantotto/ con sfrenati pensieri/ ci stiamo inoltrando/ nell’anno appresso//.

Nel corso del Sessantotto le trivelle continuavano a perforare il mare gelese, e le piattaforme sul mare mi “preclusero l’orizzonte/ a caccia d’oro nero/ e io divenni povero nel volgere di un giorno//.

Questi miei versi sono contenuti nel volume Fra il muschio delle tegole d’argilla, stampato, ancora con i caratteri a piombo, nella tipografia Athena del signor Scrodato, con il disegno di copertina di Pietro Palma, eclettico pittore che operava fra Caposoprano e le casupole di Manfria.
Sono ricordi, passioni, abbandoni, come quando in estate, “sulla sabbia color della paglia” mi abbandonavo senza paura di imbattermi in chiazze di greggio, vaganti, come i venti di scirocco…

Anche nei giorni del ’68, l’anticonformista don Grazio Alabiso era preso dall’ansia per i giovani e gli operai che attendevano un futuro migliore, al nord come al sud.
A tutt’oggi mi si affollano intorno delusioni, passioni, come i colleghi messicani, in attesa sempre di qualcosa… Forse come coloro che non avevano mai visto il mare, ma sapevano che esisteva.