Accade a Gela, una delle più popolose città della Sicilia, dove, specie dopo la chiusura del petrolchimico, la disoccupazione giovanile è una realtà quotidiana e trovare un impiego, anche umile, è spesso visto come una conquista.
Ma ciò che è capitato a una ragazza gelese, in cerca di un lavoro come commessa in un supermercato, ha il sapore amaro dell’abuso, dell’umiliazione e della totale assenza di diritti.
La storia comincia in modo ordinario. Dopo aver inviato, un anno prima, la propria candidatura per un posto come commessa in un supermercato, la ragazza riceve finalmente una telefonata. La convocano per un colloquio preliminare. Emozionata e fiduciosa, si presenta con la speranza di avere finalmente l’opportunità di lavorare, guadagnare e magari dare una boccata d’ossigeno alla propria famiglia. Ma quello che scopre durante il colloquio ha dell’incredibile.
Le vengono subito illustrate le «condizioni contrattuali» ufficiali: assunzione part-time, per quattro ore giornaliere di lavoro, e contratto a termine di 11 mesi. Nella pratica invece le prestazioni dovrebbero essere ben diverse dato che a lei viene richiesta una presenza effettiva di sette ore ogni turno di mattina (dalle 7 alle 14), per sette giorni alla settimana, compresa la domenica.
Sette giorni su sette? No, otto giorni su sette se è vero come è vero che il lunedì, oltre al turno del mattino, le viene ordinato di coprire anche il turno pomeridiano (dalle 14 alle 21) per un totale di 14 ore lavorative in un solo giorno.
La giovane gelese, incredula, chiede se sia previsto almeno un giorno di riposo settimanale. La risposta è agghiacciante: «No, non ci sono riposi e non ci sono ferie - le viene risposto - e il lunedì si fa sempre doppio turno» – come se già non bastasse l’impegno quotidiano.
Nessuna flessibilità, nessuna considerazione delle norme contrattuali, nessuna tutela. Chiunque pensa che a fronte di tanto lavoro e di tanti sforzi ci sarà almeno una lauta retribuzione capace di compensare ogni sacrificio.
Invece no. Delusione totale. Per tutto quel che viene richiesto alla dipendente, lo stipendio promesso è di 700 euro al mese, comprensivo di ogni diritto, cioè ferie e indennità varie incluse. Tradotto in denaro si riduce a 2 euro e 90 centesimi l’ora, con un impegno settimanale di 56 ore, quasi 240 al mese. Una cifra da sfruttamento che non solo è indecente, ma che calpesta apertamente il contratto di lavoro e le leggi (come lo statuto dei lavoratori) che tutelano i prestatori d'opera.
Quando la giovane, temendo di aver frainteso, chiede conferma di ciò che ha appena ascoltato le viene ribadito tutto con estrema freddezza. Non solo. Con una notevole dose di cinismo le viene pure chiesto di dare una risposta immediata perché fanno notare che «c’è tanta altra gente disoccupata in fila, pronta ad accettare questa opportunità anche per meno soldi».
È in quel momento che qualcosa si spezza. La ragazza non ci sta. Non si lascia intimidire. Risponde con orgoglio e fermezza.
«Io cerco un posto di lavoro che dia dignità alla mia persona e che riscatti dai bisogni me e la mia famiglia. Non cerco certo un posto da schiava del terzo millennio».
Quindi si alza e se ne va. Con fierezza, ma anche con rabbia. Una rabbia che non nasce solo per sé stessa, ma per tutti quei giovani, uomini e donne, che si trovano ogni giorno davanti a simili “offese” mascherate da offerte di lavoro.
Incredula e delusa, pensando anche ai recenti arresti di commercianti sfruttatori eseguiti a Misterbianco della Guardia di Finanza si chiede: «ma allora non servono a niente le operazioni della magistratura contro lo sfruttamento, il caporalato e il lavoro nero? Se è possibile proporre apertamente condizioni così vergognose, se si può impunemente umiliare la dignità delle persone offrendo salari da fame in cambio di turni massacranti, allora qualcosa nel sistema è profondamente guasto».
In un Paese come l'Italia che si definisce civile, europeo, democratico, è inaccettabile che esistano situazioni simili. È inaccettabile che si sfruttino la disperazione, la precarietà, la fame di lavoro per imporre condizioni disumane. Questo non è un episodio isolato. Pare che lo stesso avvenga in bar, negozi, ristoranti, senza il rispetto di un salario minimo che a Roma il governo si rifiuta di stabilire. È il riflesso di un mercato del lavoro che troppo spesso dimentica che dietro ogni curriculum c’è una persona, una storia, una vita.
«In questo clima, fa bene la Cgil a sostenere le sue proposte referendarie» dice tra sé e sé la giovane gelese. Uscendo da quel colloquio, pensava proprio che è fondamentale dire «Sì» a chi lotta per restituire dignità al lavoro. «5 Sì» a contratti a tempo indeterminato, a un salario dignitoso, alla sicurezza sul lavoro, al reintegro per chi viene licenziato ingiustamente, alla cittadinanza per chi, straniero, vive, lavora e contribuisce alla crescita della nostra società civile.
Perché il lavoro non può e non deve essere una forma di schiavitù moderna. Deve essere strumento di libertà, emancipazione, realizzazione personale e collettiva. Il lavoro deve elevare, non schiacciare.
E qui emerge l'altro grosso e irrisolto problema, cioè il controllo tramite l'ispettorato del lavoro. Da decenni i governi nazionali e regionali, di qualunque colore politico, promettono l'incremento degli organici di questo delicato settore di vigilanza. E' stato fatto poco e niente col risultato che sub-appaltatori, caporali e mediatori continuano a favorire lo sfruttamento della povera gente mentre nei cantieri e nelle campagne gli operai muoiono in incidenti sul lavoro e i loro corpi in maniera disumana vengono scaricati e abbandonati come cani su strade e cavalcavia. E' ora di ribellarsi a tutto questo.
Forse, in quella ragazza che ha avuto il coraggio di dire no, possiamo riconoscere un seme di speranza. Perché è solo attraverso la consapevolezza, la denuncia, una collettiva presa di coscienza e l'unione dei cittadini più sensibili e coraggiosi che si può cambiare davvero. E il primo passo per farlo è non accettare mai più condizioni che ci tolgano la dignità.