L’Eni e la città ai tempi di Hytten e Marchioni

L’Eni e la città ai tempi di Hytten e Marchioni

Non avevo letto il libro di Hytten e Marchioni “Gela: una storia meridionale - Industrializzazione senza sviluppo” né allora quando fu pubblicato negli anni 70, nè di recente.


Ho letto l’interessante articolo di Salvatore Parlagreco, sul Corriere di Gela, scritto e pubblicato in occasione della morte di Marchioni, e mi sono incuriosito. Sono venuto in possesso di una copia del libro pubblicato nel ‘90 dall’Assemblea regionale in cronache parlamentari siciliane sempre per iniziativa di Parlagreco, verso cui siamo quindi doppiamente grati.
Francamente, mi aspettavo che altri, oltre me, visto che l’articolo di Parlagreco sul Corriere online ha fatto registrare ad oggi oltre 8 mila visualizzazioni, che altri intervenissero nel dibattito, giusto per arricchire ed ampliare la sfera delle opinioni su quanto raccontato nell’articolo.

A questo punto mi sono chiesto cos’altro si potesse dire di questo libro, 50 anni dopo la sua pubblicazione, “neutralizzata” – da quel che viene confermato nell’articolo del Parlagreco – dall’intervento dell’Eni, che avrebbe comprato tutte le copie del libro per impedirne la diffusione.
Queste le mie riflessioni a riguardo.

C’è chi dice che è stato un bene la chiusura della fabbrica perché troppo inquinante.
Nel libro non si accenna alla questione ambientale.

Non si parla nemmeno dei rischi per la salute che una fabbrica chimica poteva comportare.
Nè dell’inquinamento dell’aria, dell’acqua, dei terreni. Nè dei rischi di tumori e malformazioni neonatali.
La questione ambientale non era ancora diventata un patrimonio culturale comune. Come invece lo sarebbe diventata dopo, ai tempi delle lotte contro la centrale a carbone.
Tutti hanno lottato per avere a Gela la fabbrica, partiti e sindacati, convinti che l’industrializzazione potesse portare solo benessere e sviluppo. Non hanno pensato agli effetti collaterali in termini di salute e in termini di sicurezza e del vivere civile.

Pensavano che partendo da una situazione di arretratezza, comunque sarebbe stato un vantaggio enorme per Gela ed i gelesi e che il resto sarebbe venuto da sé, come in una visione miracolistica, attraverso la mano invisibile, divina. E’ prevalsa una visione illuministica, alla Adam Smith.
Non si è verificato nessun miracolo e non c’è stata nessuna mano divina. Semplicemente perché la direzione aziendale non ha fatto nessuna programmazione e non ha coinvolto nessuna forza locale in termini di partiti, sindacati e imprenditori nelle fasi decisionali, nei modi e nelle scelte. Insomma non c’è stata nessuna partecipazione in fase decisionale.

Le decisioni sono state prese dall’azienda, calate dall’alto e imposte. D’altronde i partiti, i sindacati, le varie amministrazioni comunali che avrebbero potuto proporre scelte e modi diversi non l’hanno fatto. Si viveva alla giornata e si giocava di rimessa. La logica assistenzialista ha prevalso già allora, come oggi.

Al massimo si pensava dopo, a cose fatte, a chiedere delle compensazioni, come risarcimento danni. Ma nemmeno quello si è riuscito ad ottenere. La dirigenza della fabbrica non ha provveduto a eliminare le scorie, i resti, la cattedrale di ferraglia, non ha bonificato i terreni. Non ha risarcito i gelesi per i danni arrecati all’ambiente e alla salute. Non ha risolto il problema della mancanza dell’acqua, non ha affrontato il problema della criminalità, mafiosa o paramafiosa, legata in parte agli appalti.

Mai si è programmato insieme, attorno ad un tavolo, il che fare. Lo dicono chiaramente i due autori. E questo perché? Per incapacità? Forse, anche. Ma anche per “connivenze” con l’industria di Stato.
Proprio il fatto che si trattasse, almeno inizialmente, di industria di Stato frenava in qualche modo le forze locali dall’intraprendere azioni che potessero scontrarsi con la dirigenza e privilegiavano invece una linea morbida e spartitoria delle ricadute occupazionali e degli appalti. Infatti si attuava una spartizione alla Cencelli di posti di lavoro e appalti.

Non solo, ma c’è da aggiungere che questa logica premiava anche coloro che sfruttavano la fabbrica ai fine di una loro carriera politica e sindacale. Ed alcuni in effetti hanno fatto carriere politica e sindacale, gente che altrimenti avrebbe avuto ben altro destino umano e lavorativo. In questo modo la direzione aziendale stava tranquilla e teneva in pugno le varie forze locali. E’ mancata una capacità imprenditoriale da parte dei gelesi, tradizionalmente lontani dal concetto di rischio e di imprenditoria, per cui gli appalti spessissimo erano gestiti da forestieri. Con tutte le ricadute.

E’ mancata soprattutto la capacità di proporsi come agenti culturali, di proporre cultura.
Era compito dell’azienda di Stato? Forse, ma questa, che avrebbe dovuto mirare non solo ad una crescita economica, non solo al profitto, ma anche alla crescita culturale, non l’ha fatto. Si è comportata come una azienda privata. Solo profitto e niente sconti, niente ridistribuzione della ricchezza.
Niente benzina a prezzi più bassi, niente concimi a prezzi più bassi, per i gelesi. I gelesi hanno pagato tutto allo stesso prezzo dei milanesi ricadendo su di loro anche parte delle spese di trasporto, tanto per fare un esempio.

La fabbrica necessitava di chimici, di geometri, di ragionieri? Si fornivano chimici, geometri e ragionieri. Ma non c’era una cultura altra, diversa dalla presenza della fabbrica. Tutto è ruotato attorno a questo faro che sembrava dovesse durare per sempre e risolvere tutti i problemi a tutti.
D'altronde oggi è anche peggio. Se allora il capitalismo di Stato, il capitalismo solido, per dirla alla Bauman, chiedeva chimici, oggi il capitalismo liquido delle banche e della tecnica chiede alla Bocconi laureati in economia. La situazione da questo punto di vista è peggiorata e la sudditanza della politica e della cultura dall’economia è aumentata, ma non è tanto e non più dall’economia reale, ma da quella virtuale, finanziaria. Che è peggio.

La vicenda gelese è solo gelese? è specifica di Gela? no, è una vicenda paradigmatica dell’industrializzazione, nel bene e nel male. Stando cosi le cose, dicono Hytten e Marchioni, non poteva andare diversamente.
Gela è stata usata e poi gettata via, come un po’ tutto il sud Italia. Ma cosa avrebbe pensato e detto oggi Hytten? Le sue preoccupazioni si sono avverate, e anzi tutto è andato verso il peggio. Oggi che non c’é né crescita economica né progresso socio-culturale, oggi che per molti filosofi e pensatori, come Galimberti, viviamo il regresso socio-culturale?

Oggi, sociologi come De Masi sostengono che si può benissimo passare da una fase arretrata e tradizionale, dalla cultura agricola, a quella moderna o postmoderna e postindustriale dei servizi, senza necessariamente passare attraverso la fase industriale.
Quello che avrebbe dovuto vivere Gela. Una cittadina a cultura contadina negli anni 70 poteva benissimo scegliere uno sviluppo diverso, saltando l’industria e puntando sul turismo, sul mare e su una agricoltura moderna. E’ andata diversamente, è andata male. Ma non tutto è perduto.

Oggi che viviamo chiusi nella case a causa del Covid-19 possiamo riflettere e pensare, possiamo ripensare ai guasti di questi anni e a come uscirne fuori attraverso scelte rispettose della nostra specificità: turismo culturale che valorizzi le radici greche di Gela, agricoltura aziendale moderna e biologica, servizi e comunicazione via mare, porto commerciale. Insomma, una sintesi armonica di economia postindustriale e una cultura rispettosa delle nostre tradizioni locali.