Scompare Marco Marchioni, Scrisse con Eyvind Hytten, la bibbia del meridionalismo

Scompare Marco Marchioni, Scrisse con Eyvind Hytten, la bibbia del meridionalismo

Marco Marchioni (nella foto a destra), romano de Roma, con Eyvind Hytten (nella foto a sinistra), norvegese di Oslo, scrisse “Gela, una storia meridionale. Industrializzazione senza sviluppo”, considerato un classico della letteratura meridionalistica, e una specie di bibbia per quanti si accingono ad affrontare, con indipendenza di giudizio, la storia economica politica e sociale del Paese.

Se n’è andato il giorno 24 del mese di marzo, trasportato forse dal vento infame ed impetuoso della pandemia, che sta spazzando via deboli e anziani.
E Marco Marchioni era anziano di età, non di cuore e di mente. Un uomo di forte intelletto, dall’animo gentile, generoso e passionale, schierato sempre dalla parte degli indifesi, i diseredati, discriminati. Uomini e donne costretti a subire, dalla culla alla tomba, le vessazioni altrui. Marco Marchioni aveva uno stampo antico, ed un bagaglio culturale moderno. Venne a Gela da Roma all’inizio degli Anni Sessanta.

Eyvind Hytten, suo partner, arrivò a Gela da Partinico. Era partito dalla Norvegia con una Vespa, pochi anni prima, portando nel sedile posteriore della moto la giovane e bella moglie, Cristina, svedese. A Oslo insegnava Filosofia Morale. Si recò a Partinico per raggiungere Danilo Dolci, che aveva scelto Partinico per la sua guerra alla povertà ed alle ingiustizie sociali. Fu il sociologo triestino il suo mentore, il suo mito, la ragione di quella generosa scelta. Hytten avrebbe voluto dimostrare sul campo che le sue teorie di promozione dello sviluppo nelle terre disagiate potevano cambiare le cose. Non credeva di potere cambiare il mondo, non era affatto l’utopia di Candide a portarlo nell’isola. Insieme a Danilo Dolci, e con Cristina, sua moglie, si rimboccò le maniche, e lavorò di braccia, non solo con la macchina per scrivere. Furono anni difficili ma intensi quelli vissuti a Partinico. Le delusioni furono tante. Addebitò al sociologo triestino di spettacolarizzare la miseria e l’emarginazione. E l’uso dei poveri disgraziati per ottenere consenso. Il rigore del filosofo morale da una parte, il pragmatismo di Dolci dall’altra. Un conflitto inevitabile.

Eyvind abbandonò Partinico e, dopo una breve pausa, si trasferì a Gela. Erano gli anni Sessanta, e a Gela stava cambiando il mondo. Dove si coltivava cotone e grano arrivavano le trivelle e dove c’era il bosco e le dune di sabbia nasceva la più grande fabbrica del Meridione d’Italia, grazie allo sbarco di decine di migliaia di operai, tecnici e manager provenienti da ogni parte d’Italia. C’erano le condizioni ideali, secondo il managment pubblico, per ingaggiare. Una sfida, una scommessa. Sarebbe stata un’occasione unica per promuovere sviluppo e creare benessere nel Sud d’Italia. A partire da Gela, appunto.

Marco Marchioni veniva invece dalla Spagna dove aveva affiancato gli antifranchisti ed i sostenitori del ritorno alle libertà democratiche. Una militanza dura e perigliosa. Non so se fosse un infiltrato o un guerrigliero oppure un semplice maitre à penser in forza ai “compagni” libertadores. Aveva dunque alle spalle una esperienza di lotta, sul campo, ben diversa da quella del suo amico e maestro, Eyvind Hytten.
Affinità elettive fra i due, Marco e Eyvind erano una coppia perfetta. Disincantato flessibile e concreto Marco, colto e puntiglioso Eyvind, ma entrambi votati a realizzare le loro ambizioni, promuovere la partecipazione di una comunità ai grandi eventi di cui era protagonista, magari a sua insaputa. Una comunità “presa alla sprovvista”, come Gela, che assisteva inerme, ma “devota”, alla repentina trasformazione, convinta di essere destinataria di un autentico miracolo. Il posto sicuro in fabbrica, lo stipendio puntuale, la possibilità di mettere su casa e famiglia. Invece che pregare il Padreterno e la Madonna, i doni finalmente arrivavano dalla fabbrica e sarebbero arrivati in futuro dal petrolio che zampillava dalle trivelle. IL texas siciliano, insomma. Allora il petrolchimco non era ancora la Cattedrale nel deserto, ma era già il tempio dei tempi nuovi.


A volerli a Gela, Marco ed Eyvind, furono dirigenti dell’Eni che si preoccupavano di preparare la città al grande passo verso il futuro. Uomini di cervello fino e di vedute larghe, ideologicamente imparentati con la sinistra politica e sociale del Paese, ma assoluta minoranza nell’Eni, soprattutto dopo l’abbattimento dell’aereo del Presidente dell’Eni, Enrico Mattei, uomo pragmatico ma impegnato ad affermare il ruolo centrale della fabbrica.
Sia i committenti più sensibili, quanto gli altri, scettici e recalcitranti, avevano in egual misura il bisogno di far credere ai cosiddetti effetti moltiplicatori che gli investimenti, enormi di Gela avrebbero suscitato.

Realizzata la fabbrica, sarebbero fiorite le industrie, piccole e medie, a valle. Solo con queste aspettative sarebbero stati persuasi i governanti, i partiti e sindacati, a non lesinare quattrini nel dotare il Gigante di Gela di quelle infrastrutture che, altrimenti, non avrebbero reso possibile far partire la macchina, dispendiosissima, ubicata a Bulala, a ridosso della collina gelese. La coppia Hytten-Marchioni si trovò, dunque, a operare durante il duro scontro, sommerso, fra le due fazioni dell’Eni, e divenne oggetto di conflitto.

Non so nulla delle relazioni che intrattennero Hytten e Marchioni con quei committenti virtuali favorevoli a promuovere la partecipazione della comunità locale, alle scelte che si compivano. A mio avviso Marchioni e Hytten non ebbero un canale di comunicazione con il vertice dell’Eni, tanto che vissero a Gela senza ricevere alcun compenso per il loro lavoro. E quando fu il momento per entrambi di confrontarsi su ciò che bisognava fare e presto, per non tradire le aspettative, perpetuando le ingiustizie, si trovarono davanti un muro invalicabile: tornatevene a casa, insomma, e chi ha avuto, ha avuto.

Né Marco né Eyvind accettarono però che la loro permanenza a Gela si trasformasse in una Caporetto. Non sarebbero stati espulsi per fame. E non avrebbero lasciato la Sicilia senza dare testimonianza della loro presenza. Come? Un libro, naturalmente, scritto a quattro mani, appunto “industrializzazione senza sviluppo”, la bibbia di tutti i tradimenti subiti dal Mezzogiorno d’Italia.

Quando il libro uscì, rimase nelle librerie italiane per qualche giorno. Emissari interessati dell’Azienda a partecipazione statale acquistarono tutte le copie, facendolo sparire. Ci sarebbero voluti venti anni perché fosse letto e studiato, quando venne pubblicato come allegato alla rivista ufficiale del Parlamento Siciliano, Cronache parlamentari. Tredicimila copie, che non poterono subire lo stesso trattamento del libro, perché vennero spedite e distribuite senza alcuna interferenza. Questa piccola storia, nella grande storia del libro, offre la testimonianza del contesto tradimentoso ed incivile, in cui la comunità gelese, e il Meridione, vissero l’avventura della grande fabbrica gelese.

Perché mai quel libro, scritto da due sociologi, non avrebbe dovuto essere letto, come fossimo al tempo dell’Inquisizione, e si trattasse di un testo eretico. Eppure non una eresia veniva enunciata né una “colonna infame” era invocata o una gogna fabbricata. E allora? Le parole degli autori spaventavano più di un j’accuse implacabile, avrebbero potuto togliere alla “razza padrona” del tempo la gestione di un flusso gigantesco di risorse, di fatto incontrollato.

Una dotazione di risorse che stava diventando terreno di pascolo di Cosa nostra che dal riesino e dal palermitano si era trasferita a Gela, mungendo le vacche grasse della Cassa per il Mezzogiorno, una sorta di camera di compensazione fra i manager pubblici milanesi e la politica romana e meridionale. La fabbrica si procurava le risorse, la politica decideva la destinazione degli appalti e delle commesse. Chi crede che lo scambio sia avvenuto a Gela, o nella provincia nissena, mente o ama le favole: l’indotto di Gela, generatore di commesse ambite, è stato frutto di mediazioni da fare invidia al manuale Cencelli, il resto invece, di livello modesto, è stato affidato ai mestieranti politici locali o siciliani. Materiale di risulta, insomma.

Oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, quel libro eretico ha il valore di una testimonianza ineludibile degli errori del meridionalismo politico e costituisce una memoria puntuale dei ritardi, culturali e politici, della comunità gelese. Mentre la città viveva una perenne inebriante sensazione di benessere, Hytten e Marchioni gridavano nel deserto: la rivoluzione industriale non avrebbe miracolato nessuno, anzi che Gela avrebbe vissuto delusioni e disastri a causa della emarginazione della comunità dai processi di trasformazione.

Quanti diedero ascolto ai due autori della bibbia? Quanti oggi, ed a ragione, si spendono per denunciare la sconcertante fuga da Gela dell’Eni (al di là dei proclami a tinte verdi), hanno da fare i conti con i silenzi e le connivenze gelesi. Per imparare la lezione, e riprendersi il ruolo che è stato loro scippato.

C’è una domanda che Marco ed Eyvind non si fecero, la stessa che veniva proposta anche mezzo secolo fa sottobanco: sarebbe potuta andare diversamente, avrebbe potuto reagire convenientemente una comunità a forte economia agricola, le mani nude e inesperte? C’erano le condizioni, perché Gela prendesse coscienza di ciò che stava accadendo? Avrebbe potuto dotarsi di strumenti, mezzi, risorse per stare al passo con quel “presente” arrivato al galoppo, come l’alta marea, per prevedere i bisogni di un torrente in piena che trascinava ogni cosa, cancellando le profezie delle cassandre? Gela correva con il telaio di una Ferrari e il motore a scoppio di una vecchia Balilla.

Marco Marchioni, che se n’è andato dimenticato anche dalla comunità della quale è stato un profeta disarmato, ha fatto il suo dovere, inascoltato, raccontando quel che stava accadendo, e prefigurando lucidamente, come il suo maestro e amico, il norvegese innamorato della Sicilia, ciò che sarebbe accaduto.
Non invoco un mea culpa bigotto e ambiguo, un lavacro utile solo ad assolvere i gelesi dal peccato originale, del quale si è insieme innocenti e colpevoli. Hytten e Marchioni, testimoni postumi di una nuova intensa pagina di storia, divengano i costruttori del lessico civile di una comunità moderna, capace di essere protagonista del suo futuro.