Il sindacalista inquieto e il sottotenente incauto

Il sindacalista inquieto e il sottotenente incauto

Nonostante siano trascorsi quasi sessant’anni, conservo la lucida memoria degli episodi che mi accingo a raccontare, alcuni dettagli non mi sfuggono perché li attingo dalle carte che conservo gelosamente. 

Grazie a questa cura del passato, posso raccontarvi di due personaggi accomunati da una solidarietà di destino: un ufficiale della Guardia di Finanza, ligio al dovere e un sindacalista, Francesco Salamone consumato navigatore di acque tempestose, dotato di vivida intelligenza  ed intemerata ambizione. Operarono a Gela in campi diversi e non s’incontrarono mai, eppure qualcosa me li ricorda insieme. E la ragione c’è, ebbero entrambi a mancare di rispetto allo stesso personaggio, ascoltato per la funzione che svolgeva e per il carisma che possedeva. 

Il sottotenente Mangiaglia commise l’errore, lo dico con ironia, di tradurlo in caserma, mascariandone l’immagine adamantina. Il sindacalista, ne fece il bersaglio della protesta sindacale, accusandolo pubblicamente di avere taciuto sulle nefaste conseguenze di gas nocivi e scarichi tossici, mettendo a repentaglio la salute dei lavoratori e della comunità. Sia il sottotenente Mangiaglia quanto il sindacalista Salamone dovettero fare i bagagli e lasciare la città. Per mancanza di rispetto?

Il primo fu trasferito, il secondo accettò, senza traumi invero, un anno sabbatico da “consumare” a New York nel sindacato dei portuali, giusto dove i Servizi Americani avevano arruolato i boss per lo sbarco a Gela durante l’ultimo conflitto mondiale. Quest’ultima, tuttavia, è solo una curiosa coincidenza, forse qualcosa di più, una strana fortuita circostanza, e nient’altro. 

Mangiaglia faceva il suo dovere quando incappò nell’incidente. Lo ricordo timido, perfino impacciato in apparenza, ma cocciuto e risoluto nei fatti. Gli fu affidato il comando della Guardia di Finanza di Gela nei mesi in cui si sapeva poco del futuro che attendeva la città, e i giganti d’acciaio di contrada Maroglio facevano sentire gli abitanti di Gela dei lillipuziani. Con il bailamme di quei giorni, il sottotenente ebbe poco a che fare, aveva nel mirino il contrabbando di sigarette, che si svolgeva sul litorale gelese da molti anni. Il golfo gode di fondali bassi, di calette nella zona di Manfria e di Falconara, non è mai stato sorvegliato convenientemente. Un luogo “ospitale”, dunque. 

Mangiaglia teneva d’occhio il litorale per quello che gli è possibile, la costa è lunga e le risorse sono modeste. Grazie ad una soffiata tuttavia, arriva un’alba fortunata, il 7 luglio 1962. I contrabbandieri sfuggono alla cattura dopo avere depositato una ingente quantità di sigarette in un villino che si affaccia su una caletta a Manfria. L’elicottero della Guardia di Finanza, che volteggia nella zona alla loro ricerca, segue il tragitto di un’auto diretta proprio verso la villa in cui è stata depositata la merce.

Una pattuglia di finanzieri ferma la vettura, il suo conducente è il proprietario della villetta, un insospettabile professionista di origine riesina. Che ci fa da quelle parti così di buon mattino, gli chiedono i finanzieri? L’uomo farfuglia qualcosa, Mangiaglia ordina di condurlo in caserma dove viene interrogato. Ed offre la sua versione. Sta recandosi nella villa al mare come d’abitudine, non sa niente di sigarette e contrabbando. Viene rilasciato dopo un’ora.

 Il sottotenente Mangiaglia non è affatto persuaso della spiegazione. Le indagini non si fermano. Nei giorni successivi l’episodio diviene di dominio pubblico, suscitando tanti interrogativi. Quell’ora trascorsa in caserma, l’ubicazione della villa sullo scoglio (come avrà fatto ad ottenere l’autorizzazione a costruirla?), l’entità del ritrovamento (le sigarette sequestrate sono tante), esercitano una irresistibile voglia di sapere come stanno le cose. Prevale lo scetticismo. Le indagini subiranno una inaspettata interruzione. Il tenace sottotenente riceve l’ordine di trasferimento, dovrà immediatamente prendere servizio in Liguria. Ed ha inizio la sua odissea: sottoposto a repentini movimenti, lascerà il servizio. 

Prima di andarsene da Gela, Mangiaglia incontra i giornalisti per un commiato, le sue parole le ritrovo nella bozza di un vecchio articolo a mia firma. «Quando si riesce a vedere chiaro nell’ambiente e si potrebbe lavorare meglio – ammette con rammarico il sottotenente – ci tocca di andare via». Non aggiunge altro, ma basta per suscitare dubbi e domande sul trasferimento. Alcuni anni dopo, una grande quantità di sigarette, galleggianti nel mare di Gela, testimoniano che il contrabbando è continuato indisturbato, nonostante la folla di natanti nel golfo per il traffico del porto-isola. 

Francesco Salamone, sindacalista della Cisl, originario di Porto Empedocle, arriva a Gela quando la fabbrica marcia a pieno regime. La sua attività a Gela comincia quando finisce quella del sottotenente Mangiaglia. L’indotto della fabbrica è una miniera d’oro: appalti e commesse, gestione di servizi (mensa, insaccaggio, trasporti ecc.). Dalla Cassa per il Mezzogiorno arrivano una pioggia di quattrini per la costruzione del dissalatore, il porto isola, la diga di Disueri, i primi tratti dell’autostrada Gela Siracusa (riposta nel libro dei sogni).

Il Consorzio per il Nucleo industriale ha il compito di girare all’Anic le risorse che gli vengono assegnate. Le grandi imprese e cooperative del Nord si aggiudicano gli appalti più importanti ma affidano in subappalto le opere. Sono gli anni della grande immigrazione. Arrivano operai, tecnici specializzati, manager, ma anche boss provenienti da Riesi, il Vallone e il Palermitano. 

Salamone ha ricevuto una consegna dal suo parlamentare agrigentino di riferimento, Sinesio: spezzare il monopolio politico di Calogero Volpe, potente parlamentare del Nisseno, su cui girano tante voci malevoli. Il sindacalista combatte a viso aperto gli uomini di Volpe, mettendosi di traverso ogni volta che ricevono prebende, commesse e appalti. Urla, denuncia, diffonde volantini di fuoco. Si fa largo velocemente, una mina vagante. E’ l’unica voce dissonante, ne guadagna la credibilità del sindacato, la Cisl. 

Agisce con disinvoltura, si accanisce contro i nemici, mette nel mirino il bersaglio grosso, quel professionista carismatico, di origine riesina, fermato dal sottotenente Mangiaglia. Lo accusa di avere messo in pericolo la salute dei lavoratori e della comunità gelese, tacendo sul pericolo delle emissioni nell’atmosfera dei gas di scarico della fabbrica. Il “bersaglio”ricopre funzioni delicate, ha il compito di monitorare, in prima istanza, il rispetto delle regole a salvaguardia della salute pubblica.

E’ troppo, Salamone riceve messaggi inequivocabili. Gli bruciano l’auto, e fanno sapere che la vettura è un grazioso dono. Fatto da chi? Il gestore di un servizio lucroso in fabbrica. Tentano di screditarlo e impaurirlo, ma non basta per ridurlo alla ragione. Stando alle indagini degli inquirenti, le fiamme sono state provocate da un processo di autocombustione. Nei giorni successivi, e negli anni a venire, l’autocombustione che manda in fiamme le auto diventa un incontenibile virus. Sono avvertimenti inequivocabili, il primo gradino di una tragica escalation.

Di mafia tuttavia nessuno parla. Impossibile che abbia accesso in fabbrica, non è la sua location tradizionale. Dove arriva l’industria il crimine organizzato è spogliato della sua manovalanza, la materia prima. E poi, i manager vengono da Milano, non hanno relazioni nel territorio, né vantano amicizie pericolose, sospettare ammanicamenti con i boss sarebbe delirante. Pigrizia culturale, l’immagine della fabbrica da difendere, la copertura sul big business. 

Salamone è ringhioso, cocciuto quanto il sottotenente Mangiaglia, morde non molla la caviglia del nemico. Per buona sorte una punizione esemplare farebbe troppo rumore in un ambiente che nega la presenza del crimine organizzato. Qualcuno perciò si mette in mezzo e trova la soluzione. L’inquieto sindacalista deve lasciare Gela, senza indugio. E andare lontano, magari oltreoceano. Salamone obbedisce.

Quando tornerà, dopo un anno, Francesco – Ciccio per gli intimi - sembra un altro. “Si è sposato”, spiegano, “ha messo la testa a partito”. Forse ha imparato l’arte della pazienza e dell’ascolto dal sindacato dei portuali newyorkesi. 

Il sindacato è una vicenda chiusa. Siccome ha messo giudizio, è accolto a braccia aperte dal suo partito, la Dc. Eletto consigliere comunale a Gela e poi assessore, renderà visita all’allora sottosegretario alle Poste, Calogero Volpe, che domina la scena. Se pace ci deve essere, dovrà essere pubblica. Calogero Volpe lo riceve in poltrona, allunga la mano per farsi omaggiare; quando se lo trova accanto, lo gratifica di un energico buffetto sulle guance, come si fa con i ragazzi discoli.

E’ un ammonimento ed un segno di ritrovato affetto. I buffetti lasciano il segno, arrossano vistosamente le guance del figliol prodigo. “Hai la faccia come un pomodoro, Ciccio…”, esclama Calogero Volpe, scandendo ogni sillaba. Le sue parole sembrano campane a morto per chi assiste alla scena. “Ti sei calmato?”, poi domanda con tono allegro, puntandogli gli occhi addosso.  Ciccio non sa cosa rispondere, fa un sorriso tirato, non fiaterà fino al momento in cui viene congedato. 

La storia del sottotenente trasferito in Liguria e del sindacalista spedito in America offrono un prezioso filo conduttore per tracciare il passaggio dall’era preindustriale a quella post industriale. Le indagini monche del sottotenente sono indizio, seppur flebile, di un legame con l’immediato dopoguerra. Il litorale di Gela è una location ideale per i traffici illegali della criminalità organizzata, la vicina isola di Malta la testa di ponte fra Tangeri e la Sicilia. Cosa nostra americana ha prestato la sua “leale” assistenza nella preparazione ed esecuzione della strategia militare, in codice “Operazione Husky”. E’ legittimo supporre che lavori per conto proprio, utilizzando Gela, come hub sicuro per i suoi traffici. 

Scorrendo la cronaca degli anni Cinquanta e Sessanta si trovano delle conferme. il tribunale di Caltanissetta celebra alcuni processi a carico di contrabbandieri gelesi. Pesci piccoli, qualche colletto bianco. Condanne lievi, multe e assoluzioni per insufficienza di prove, magistrati magnanimi, indagini in linea con i tempi. Acque placide, in definitiva. Il Vallone (Vallelunga, Villalba, Mussomeli, al vertice don Calò Vizzini e Genco Russo) assicura la quiete. 

Quando a Gela arrivano montagne di quattrini, i patriarchi devono passare la mano, per morte naturale o il passaggio di mano alla nuova cupola, i corleonesi hanno il sopravvento, anche a Gela, ma dura poco. I picciotti locali di mafia non hanno rispetto di nessuno. Nasce la Stidda, la malavita gelese, sollecitata dal grande business, non vuole più starsene a guardare. Scorrerà sangue nelle strade della città per più di un decennio. 

Non volavano gli angeli sul cielo di Gela nell’era preindustriale. Niente a che vedere però con la mattanza degli anni Ottanta, negli anni in cui si aspettava progresso e sviluppo, stando alle profezie.  E’ proprio la fase di transizione, trascinata dal grande business, che andrebbe indagata e meditata.

La gestione cinica degli appalti e delle commesse dell’industria e dello Stato, la sconcertante assenza dello Stato nei presidi di sicurezza, il sistema delle protezioni politiche creeranno le condizioni ideali per l’espropriazione della città da parte del crimine organizzato. La lezione è stata finora ignorata. A scoperchiare il vaso di Pandora si rischia di trovare il fango, che ha inghiottito tutto, speranze, illusioni, progetti. Il grande sogno.