A dieci anni dalla scomparsa: Totò Navarra, il Masaniello di Gela

A dieci anni dalla scomparsa: Totò Navarra, il Masaniello di Gela

Una mina vagante. Un cane senza padrone. Uno svitato.

E per gli gli snob “una variabile indipendente del folklore locale”. Totò Navarra (nella foto) era sregolato e bizzarro, incorreggibile e docile. L’Arcangelo Gabriele e Satana, Erasmo e Masaniello. I suoi blitz nelle assemblee pubbliche – partiti, sindacati, associazioni private, meeting – erano diventati un incubo.

Occorre partire da lontano per raccontare questo personaggio che fece parlare di sé per almeno trenta anni. La sua storia comincia prima che nascesse. Molto prima, il 24 giugno 1911, quando – erano le 14,15 – suo padre, Peppino, apprese da Giacomo de Bartolo, assessore comunale, che il sindaco, nonno di Totò, “aveva fatto olocausto di sé al popolo, colpito dalla folgore della morte sul seggio di primo cittadino” e che il destino gli aveva riservato di ripercorrere le gesta paterne, ineludibile lascito di una vita esemplare.

Il 10 febbraio 1961 – il giorno di Santa Scolastica – Peppino Navarra, gravato di quel lascito, rendeva l’anima a Dio portando in dono al Padreterno la dedizione al suo violino, a Santa Romana Chiesa e alla consolazione degli ultimi. Mentre San Pietro esaminava le credenziali del suo accesso in Paradiso, il destino gli tendeva un agguato. 

La Chiesa vietò l’ingresso del feretro alla Matrice, facendo esplodere la rabbia del popolo, indignato dalla ingiustizia. 

Peppino Navarra – questa la motivazione – militava sotto le bandiere del Partito socialista, alleato del comunismo, e quindi uno scomunicato. Successe il finimondo. La salma del sant’uomo fu introdotta con la forza in Chiesa. Una rivolta contro l’ingiusto divieto e contro la scomunica comminata dalla chiesa in articulo mortis.  Il feretro fu usato come ariete per abbattere la porta grande della Matrice ed annientare le resistenze della Chiesa, che rifiutando l’estrema unzione aveva costruito una trincea contro l’apertura a sinistra e l’Anticristo, travestito da galantuomo, musicista e filantropo per penetrare nel cuore del popolo fingendosi equo, mite e generoso come Gesù.

Peppino Navarra, da appena 24 ore assessore comunale della prima giunta di centrosinistra della storia politica siciliana, che da vivo avrebbe respinto la sola idea di profanare il tempio o capeggiare una ribellione, da morto ne divenne ispiratore autorevole e indiscusso protagonista. 

Totò Navarra ereditò tutto questo. E non solo. La madre, donna Clara Nocera, cugina e sposa di Peppino, esuberante e autoritaria, amministratrice oculata dei beni di famiglia, un patrimonio sostanzioso e benedizioni della Curia, avrebbe preteso eredi arcigni e oculati. Ne sapeva qualcosa Peppino, il marito, che aveva subito gli inviti alla morigeratezza verso gli atti di generosità a favore degli indigenti. Era lecito elargire parole di conforto a coloro che stavano in pena.

Totò Navarra ricevette, sulla carta, l’indole austera di donna Clara e l’afflato umano paterno. Una miscela che ne avrebbe fatto, paradossalmente, un protagonista  nella sua città, il Don Chisciotte del nostro tempo. L’autorità dei papi, la disonestà degli amministratori, le prevaricazioni dei magistrati, le leggi illiberali.

Quella del terzogenito, Totò, fu una presenza pubblica vibrante, faticosa, disperata: una marcia di Radeskji, interrotta dai timpani di Prokof'ev che imitano gli spari dei cacciatori. Metafora ardita, ma non me ne viene un’altra più semplice. 

I miei ricordi di Totò Navarra sono nitidi: spuntava d’improvviso dalla platea o dalla folla durante una manifestazione per dire la sua, qualunque fosse l’argomento e il contesto, senza farsi mai intimidire dagli inviti pressanti a tacere. Fece altro, fuori dagli eventi ufficiali, nei quali si infiltrava.  Più volte si denudò in piazza o sulla spiaggia affollata per deplorare le anacronistiche censure dettate dal comune senso del pudore.

La sua fama varcò i confini di Gela quando sferrò una corriva battaglia contro un magistrato, il pretore Salmeri di Palermo, noto al grande pubblico quale tutore dei buoni costumi nel Paese. Erano gli anni Sessanta e in cinema si proiettavano molti film audaci: belle donne, storie piccanti, scene hard e Salmeri sequestrava, censurava, denunciava.

Totò l’affrontò in prima linea. Quando due ragazze olandesi furono colte in hot pants in via Maqueda, a Palermo, da poliziotti ligi alla lettera delle leggi,  e consegnate a Salmeri, Totò non ci vide più negli occhi, e seppellì il magistrato di cartoline raffiguranti fanciulle avvenenti e discinte. Salmeri dapprima cestinò, poi sferrò una temibile controffensiva. E Totò finì in tribunale. Sarebbe finito dritto in galera se il padre, don Peppino, dall’aldilà, non lo avesse assistito con la sua fama di onest’uomo.

La quotidianità di Totò era intensa: intratteneva un’assidua corrispondenza con il capo dello stato, il vescovo di Roma, ministri, parlamentari, inviando esposti, telegrammi e raccomandate. Insoddisfatto dei risultati, tuttavia, risolse di candidarsi alle maggiori cariche pubbliche, senza fortuna: i suoi elettori si rivelarono un numero spaurito rispetto ai tanti estimatori.

Il dispiacere dell’insuccesso, mitigato dalla libertà che ogni candidatura concedeva di arringare il pubblico, non lo fece arretrare di un passo.

Sono testimone di tanti suoi j’accuse e mi è rimasto vivido il suo ricordo. Che lo stessero ascoltando o meno, era ininfluente; interrompeva i cenacoli letterari o i lavori del consiglio comunale con la stessa determinazione, conservando, non so come ci riuscisse, il tono lieve e compassato. Solo le sopracciglia, alte e folte, tradivano la passione per le sue battaglie sui diritti civili. Finì con il divenire il disturbatore seriale, il diserbante rumoroso dei vizi del potere. 

Il timore che Totò Navarra entrasse a gamba tesa nel bel mezzo di un dibattito suggerì di venire a patti con lui. I più saggi gli promettevano accoglienza in cambio di un intervento breve e pacato, gli intransigenti si affidavano alle forze dell’ordine. Non ci fu mai verso di farlo tacere, sia con le buone che con le cattive. Sia i trattativisti, quanto gli intransigenti subirono cocenti sconfitte. Totò non poteva essere fermato. Nei commenti postumi furono sempre i potenti a perdere la faccia. Se ne andò all’età di 85 anni, mai domo, nel 2011, giusto dieci anni orsono, lasciando, lo si può ben dire, un vuoto incolmabile.