“Annardo” e il gioco delle tre carte

“Annardo” e il gioco delle tre carte

Era una giornata di sole, che non è una novità dalle nostre parti, così lontana da non riuscire a raccapezzarmi.

Ricordo soltanto di avere dismesso da poco i calzoni corti, di trovarmi in Piazza Umberto I a Gela, di avere osservato un tale che vendeva coltelli, mostrandoli conficcati su un tronchetto, e incuriosito da una piccola folla, di essermi intrufolato per scoprire che cosa ci fosse da vedere. E’ in questa occasione che vidi per la prima volta Arnaldo Peritore, Annardo per tutti. Recitava magnificamente la parte di un amoroso e irridente prestigiatore, impegnato a far comparire e scomparire la carta vincente. Intratteneva i curiosi con il gioco delle tre carte. Era giovane, ilare e malizioso, un istrione consumato. Mischiava le tre carte con rapidità straordinaria, e soggiogava il gruppetto di perditempo attorno a lui, intenti a inseguire la carta vincente.

Quel guascone riuscì a rubare la mia attenzione per un tempo non breve, mi ero messo in testa infatti di scoprire, nientemeno, il segreto della sua destrezza, dove stava il trucco. Quando uno degli astanti indovinò la carta vincente, voltai le spalle al baracchino improvvisato da Arnaldo. Fu la faccia patibolare del fortunato vincitore a rompere l’incantesimo. Recitava da cane il ruolo che gli era stato assegnato di compare, esca, specchietto per le allodole. Se vince lui, pensavano i perditempo, significa che possiamo scommettere anche noi. La loro fu una partecipazione entusiasta. 

Dopo il compare però non indovinò più alcuno. E fra i perditempo cominciò a montare una sorda rabbia, sicché – capìta l’antifona – di punto in bianco Arnaldo intascò i quattrini e in un baleno smontò baracca e burattini e sparì, abbandonando la postazione di Piazza Umberto e infilandosi nella stradina che gira attorno alla Chiesa Madre di Gela. Fu la mossa giusta, e il sospetto di essere raggirati si era fatta strada e sarebbero stati guai. Imparai così, in breve tempo, la grammatica esistenziale di Arnaldo, “plebeo” ingegnoso e pieno di malizia. Invece che indignarmi, però,  mi innamorai dell’amabile cialtroneria di Arnaldo, era proprio una simpatica canaglia. 

Ebbi modo, successivamente, di assistere alle sue perfomances come agitatore di folle, nei cortei, nelle manifestazioni pubbliche dove  Arnaldo indossava la maschera guascone e picaresca. 

E’ trascorso più di mezzo secolo da allora. Ho sotto gli occhi due fotografie che ritraggono Arnaldo Peritore. Nella prima è un giovanottone dalle spalle larghe, contento di sé. Le labbra, seppur sorridenti, sono contratte, segno che ci sia qualcosa d’irrisolto nel personaggio. E’ una sensazione, nulla di più. L’atteggiamento di Arnaldo in effetti era gravido di generosi destini, profezie e lusinghe.  Leggo sul suo volto la storia dei servi della gleba, macchiata di prepotenze e ingiustizie. Ma questo riguarda solo me, fa parte dei miei pregiudizi… sociali. 

Indossa una giacchetta di lana bleu sopra una camicia aperta sul petto, fino a mostrare una canottiera bianca. Una corporatura solida, carnagione bruna, occhi piccoli, sfacciati e fuggitivi. I capelli arruffati e brizzolati incorniciano una fronte alta e priva di rughe, al contrario delle guance che segnano rughe incipienti. 

Nella seconda fotografia, Arnaldo è più vecchio di una trentina d’anni rispetto alla prima (se ne andò nel 2011), si mostra accanto a un povero ragazzo disabile, un bambino adulto, conosciuto come “Saru u confidenti” per via delle sue assidue frequentazioni con i poliziotti del Commissariato di polizia di Gela. Il marchio d’infamia non risparmia nemmeno il ragazzo-bambino. Arnaldo stringe il polso di Saro con la mano destra, è un gesto protettivo.

Ha un’espressione preoccupata, uno sguardo severo. Le pieghe naturali sulle guance sono divenute rughe profonde. Dal gioco delle tre carte al gioco dei dubbi che la vita impone. Il volto guizzante, di sfida, del primo ritratto non c’è più. I lineamenti si sono inaspriti, le sopracciglia sono alte e suggeriscono  una tensione. Le labbra non sorridono, sono serrate, e i capelli, nascosti da un cappello, sono diventati bianchi.

E’ scomparsa la voracità, l’ironia che esprimevano gli occhi astuti e malandrini. La maschera ilare, il mondo irrazionale della spontaneità è sparito, al suo posto percepisco un’uggia misteriosa. Arnaldo spia i fantasmi del tempo, ha attraversato gli arcani della vita. La fortuna gioca a dadi con gli uomini. 

Arnaldo si è assoggettato docilmente allo scatto del fotografo. Vedo o stravedo? L’uno e l’altro. Il ritratto è un incubatore di sentimenti. Ferma il tempo, suggella una realtà effimera, eppure inestinguibile, è un messaggio forte. Eppure è solo un granello di sabbia nel pozzo senza fondo della memoria, una infinitesima parte. La memoria non si fa ingabbiare da niente, scivola via senza che tu possa farci niente. Lo scatto del fotografo, solo questo, mitiga il suo potere. 

I due ritratti raccontano tutto? Bisogna barattare la storia con l’immaginazione, sdoganare una biografia immaginata se si è scelto di narrare senza conoscere i  fatti e il loro frastuono, le passioni e il loro giogo. Per fortuna il tempo della memoria viaggia all’inverso di quello reale: tanto più netti sono i ricordi che arrivano in superficie quanto più lontani nel tempo gli eventi. 

Raccontare Arnaldo Peritore, contando sulla mia memoria. E’ una scommessa intrigante. Nacque di sabato, il 24 febbraio 1934, a Gela, alla vigilia delle elezioni politiche che avrebbero ripetuto il plebiscito a favore del fascismo. La famiglia di Arnaldo è umile. Arnaldo fin dalla tenera età lavora accanto al padre, venditore ambulante, ed eredita dal padre il mestiere e la povertà. Ma non basta per campare così ricorre a piccoli lavori ed espedienti. Smontando e rimontando il “baracchino” delle tre carte. E’ dietro la sua bancarella, vendendo capi di abbigliamento, tuttavia che nasce la sua fama di fluviale piazzista, vendendo “mutandine alla Rita Pavone” e “magliette alla Claudio Villa”. Il suo eloquio è ingegnoso, strampalato, irridente, le sue espressioni colorite e graffianti.

La fama si allarga quando comincia a frequentare lo stadio in occasione delle partite della squadra di casa. E’ un tifoso senza freni inibitori. Piuttosto che vedere la partita, Arnaldo insegue l’arbitro a ridosso della rete di protezione, vuole essere sicuro che i suoi insulti “ingegnosi” vengano ascoltati dal direttore di gara. Quando la giacchetta nera punisce i giocatori di casa, Arnaldo s’infiamma e urla improperi, che sono un capolavoro di fantasia. E’ un arbitro “di basso bizzucco”, o “dermosifilopatico”.

Le invenzioni linguistiche hanno effetti terapeutici sulla tifoseria inferocita, divertono e, in definitiva, salvano la “giacchetta nera” dall’ira dei tifosi. L’oratoria demenziale di Arnaldo con il tempo entra nel linguaggio dei comuni mortali, facendo di lui un idolo dei tifosi.  Arnaldo si colloca anche alla testa dei cortei, arringa il popolo con le sue grida di guerra. E’un agitatore capace di infiammare la folla. Dubito che conoscesse i motivi reali delle proteste cui partecipa, ma questo non nuoce affatto all’impegno sul campo.

Calembour privi di senso entrano nel linguaggio comune. “Rustico progenico, villano periferico”, inveisce contro uomini importanti nel giubilo generale.  Capita però che Arnaldo ci lasci le penne, per eccesso di zelo. In un sit in, a conclusione di un corteo di protesta a favore dell’istituzione del tribunale a Gela, Arnaldo con pochi altri si adagia sui binari della stazione ferroviaria. E finisce in galera per interruzione di pubblico servizio. 

La fama di Arnaldo cresce ancora grazie alle superbe doti di piazzista.  Il gioco delle tre carte è stato abbandonato, lasciando il posto ai pacchi, antesignani dell’omonimo gioco televisivo. Arnaldo investe sulla sua oratoria fluviale per attrarre clienti. La lezione della stazione ferroviaria gli è servita. La città, intanto, è cambiata. L’industria l’ha rivoltata come un guanto. Si sente un naufrago, il tempo, non è affatto galantuomo. L’oblio lo spaventa e lo intristisce.

Il folletto dalle mille trovate e delle misteriose chiaroveggenze si è eclissato, Il tramonto non è solo malinconia, ma polvere e spine. E’ solo un povero diavolo, costretto ad abdicare alle ambizioni, alla sua gente, alle sue ossessioni. Un desolato fantoccio, un elfo, un clown uscito di scena.

Un uomo di carta, forse un buono a nulla. Ad albero caduto, accetta accetta, insomma. Le sue parodie linguistiche divengono ciarle febbricitanti, il vagabondaggio di una mente monologante. Altro che schegge profetiche, api ronzanti: l’alveare non l’accetta, gli ruba il teatro di cartone, non può più calcare la scena, nemmeno come comparsa. Il suo posto è la periferia della normalità, la pecora inquieta di un gregge disamorato. 

Qual è dunque la sua medaglia? Arnaldo metteva in scena se stesso, teatralizzava la sua parte e quindi recitava senza alcun copione. Fosse stato solo un guitto avrebbe potuto conservare fino alla fine questa disposizione d’animo. Gli istrioni salvano la faccia sempre e comunque, fino all’ultimo giorno. Privilegiano la grottesca rappresentazione di sé per evitare il declino. Credono di non avere diritto ad alcuna alternativa, essere quelli che sono, almeno alla vigilia del grande viaggio. 

Ogni volta che m’incontrava, nel tempo di mezzo, quello trascorso fra il primo ritratto ed il secondo, siamo negli anni settanta, mi gratificava con espressioni di stima e di amicizia. Non so dirvi per quale ragione. Le sue parole avevano il sapore della sincerità.

Che sia vissuto di espedienti e piccole malizie non nutro alcun dubbio. Gli sparigli dell’esistenza alla fine impongono scelte. Tanti cercano un autore che li racconti, altri lo evitano come fosse il demonio, altri ancora si dibattono, starnazzando fino alla fine. Arnaldo Peritore cercò di vivere come sapeva fino in fondo, voleva essere lui a scrivere il copione. Rimase un randagio, preferì accommiatarsi in silenzio.

Il suo palcoscenico era Gela, la città in cui era nato e vissuto. Fino a che è rimasta la “sua” città, quella che amava le sue guasconate, ha sopportato di tutto, povertà e voltafaccia. Morta quella, la vita era diventata una leggenda tragicomica. Avesse potuto, sarebbe salito, per l’ultima volta, su un palco, stavolta fatto di legno e ricco di bandiere, ed avrebbe regalato il monologo della incredulità alla sua gente, per avere vissuto una straordinaria esistenza. Lui, un uomo senza qualità. 

Di Arnaldo conservo il disincanto e la buona coscienza, quella disposizione d’animo che permette d’indulgere sulle malizie. Chissà se San Pietro gli abbia dato il salvacondotto per un buon riposo, i naufraghi vanno condotti all’approdo, Arnaldo va premiato per la sua silenziosa uscita di scena, avere calzato gli stivali delle sette leghe per dare un senso alla propria esistenza, per aver avuto cuore verso gli ultimi, categoria cui ha appartenuto a pieno titolo.