Gela Iieri & oggi/ I sindaci con l’elmetto  e quelli... senza gli attributi

Gela Iieri & oggi/ I sindaci con l’elmetto  e quelli... senza gli attributi

La guerra in Ucraina ha reso giustizia ai sindaci, ovunque essi svolgano il loro compito ed a prescindere dalle regole con le quali sono stati eletti.

Con una felice espressione, a metà degli anni settanta, vennero definiti il “frangiflutti delle istanze popolari”. Si poteva aspirare a qualcosa di più? Forsae, l’Ucraina ci insegna che potrebbero essere qualcosa di più e di meglio, e rappresentare, in circostanze drammatiche, una straordinaria risorsa per la gente comune.   

I sindaci ucraini sono presenti e attivi, sono eccellenti comunicatori, mettono a repentaglio la loro vita, vengono ascoltati dai loro cittadini, riescono a tenere unita la loro comunità, e sono “rispettati” perfino dal nemico.  Il potere che essi esercitano si è trasformato in una risorsa. Accade assai raramente. Farei fatica a tentare una comparazione con i sindaci di casa nostra. 

Qual è l’idea che abbiamo dei nostri sindaci? 

La democrazia postbellica, dagli anni quaranta ad oggi, registra una alternanza di giudizi. Sono tanti e variegati i fattori che alimentano la considerazione dei cittadini. La personalità fa la differenza, piuttosto che l’appartenenza politica. Certo, ci sono i sindaci con l’elmetto, gli sceriffi, e quelli…senza gli attributi, ma è la saggezza degli elettori a fare la differenza. 

Sono stati tuttavia i sindaci di sinistra, nelle aree più vocate come l’Emilia e la Toscana, per una lunga fase a monopolizzare l’attenzione; ora è cambiato tutto, specie da quando i “governatori”, ruolo inesistente nella costituzione, dispongono di funzioni, poteri e prerogative nuove, guadagnando un livello di visibilità molto alto. 

La Sicilia, anticipando una legge nazionale, all’inizio degli anni novanta, legiferò sul sistema elettorale delle amministrazioni locali, modificando la regola principale: l’elezione del sindaco non sarebbe spettata più ai consiglieri comunali, ma al popolo. Elezione diretta, dunque, invece che indiretta. Le motivazioni più pregnanti di questa riforma – luna vera rivoluzione – furono varie, e tutte di indubbio interesse. Rappresentava un’evoluzione del sistema democratico, un allargamento della partecipazione dei cittadini alla gestione dei beni pubblici. 

C’era dell’altro, tuttavia: la ricerca della stabilità politica. Il primo cittadino avrebbe potuto finalmente lavorare con serenità alla soluzione dei problemi della sua città, senza subire il soffocante peso dei partiti, la prigionia delle coalizioni, la pressione di collaboratori – gli assessori – sui singoli provvedimenti. In definitiva si regalava al sindaco una sorta di libertà condizionata. Ma è proprio il condizionamento della libertà, studiato a tavolino dai riformatori meno entusiasti, un po' pentiti, a far mancare il terreno sotto i piedi alla nuova struttura dei poteri locali ed erodere alcune delle buone intenzioni che avevano promosso la riforma. 

I consigli comunali, “derubati” della loro prerogativa di maggior rilievo, l’elezione del sindaco, e tagliati fuori dall’ordinaria amministrazione, puntarono sui poteri residuali, concessi dalla riforma, per rimettere la bilancia nuovamente dalla loro parte. 

I sindaci non ebbero più il fiato sul collo, nella quotidianità, e non erano più messi alle strette e passare la mano, ma furono attesi al voto sul bilancio e alla fiducia, per la resa dei conti. Quando la corda, troppo tesa, si rompeva, i gruppi consiliari, talvolta tradendo il mandato dei cittadini,  potevano decretare con una maggioranza speciale, la fine anticipata del mandato del sindaco e della consiliatura. Il fatto che le dimissioni del sindaco, o la sfiducia, trascinassero entrambi gli organi, consiglio e sindaco, alla fine anticipata, non ha costituito una deterrenza sufficiente a scoraggiare l’instabilità, specie quando il sindaco, eletto direttamente, non poteva confidare su una propria maggioranza in consiglio. 

La riforma, inoltre, concesse al sindaco di scegliere i suoi assessori fra i cittadini aventi diritto al voto, togliendo anche questa prerogativa al consiglio comunale. Questa modifica ebbe una enorme portata politica: non furono solo i consigli comunali ad essere spogliati delle loro prerogative, ma anche i partiti, che già subivano, in sede nazionale, le conseguenze del referendum abrogativo sul finanziamento.

L’esito, contrario al finanziamento dei partiti a stragrande maggioranza, non scoraggiò i percettori degli emolumenti, ma aguzzò l’ingegno dei leader; nel giro di pochi giorni, il flusso delle risorse venne ripristinato, anzi reso più cospicuo, con una modifica sostanziale: non sarebbero stati più i segretari dei partiti, destinatari delle risorse pubbliche, ma i capigruppo parlamentari. Il risultato? Le leadership si rafforzarono sensibilmente, la borsa passò dai segretari ai capigruppo parlamentari. Un’autentica rivoluzione “radicale”, approvata “a muta surda”, senza clamori cioè, che si rivelò una beffa per gli elettori che avevano espresso un netto dissenso al finanziamento,  sostituito dai rimborsi elettorali. 

In questo contesto i sindaci, nella prima fase della loro elezione a suffragio diretto, riuscirono ad esprimere una nuova classe politica, legittimati dal voto popolare e dal mandato quinquennale. Potevano scegliere i componenti della giunta senza dovere rispettare il manuale Cencelli, che fino ad allora aveva distribuito le deleghe sulla base degli equilibri esterni ed interni (le correnti). Ne trasse vantaggio la qualità degli amministratori, la stabilità politica, e la partecipazione di personalità di indubbio rilievo nella società civile. 

La primogenitura siciliana fu apprezzata anche a Roma, il Parlamento nazionale legiferò, e nel Paese nacque, come ricorderete, il partito dei sindaci, grazie allo svecchiamento del personale politico ed all’indebolimento dei partiti, sia a Roma che in periferia. Durò poco la ventata di aria nuova. I partiti divennero un ologramma, mentre le leadership, che sommavano al potere della borsa quello del seggio parlamentare, s’impadronirono dell’organizzazione elettorale. Il maggioritario, pur attenuato, regalava ai segretari-leader parlamentari il potere di candidare i fedelissimi nei posti “sicuri” in lista. Il cittadino elettore poteva mettere la croce sul simbolo, ma non influenzare la scelta del candidato da eleggere. E così è andata fino ad ora.

Il partito dei sindaci tracimò subito in una palude di turbolenze locali, dove i “cacicchi”, come li ebbe a definire D’Alema, facevano il bello ed il cattivo tempo. Grazie a questa narrazione, possiamo gettare ora lo sguardo sulla periferia; per esempio, Gela. La domanda che sorge spontanea è la seguente: il popolo ha migliorato le scelte che i partiti hanno fatto per quasi 40 anni di vita democratica, nel corso della cosiddetta prima repubblica? 

Non posso usare la bilancia del farmacista per pesare la qualità dei singoli, sarebbe ingiusto e, per certi aspetti disdicevole, ma qualche nome voglio farlo, giusto per non essere tacciato di codardia: ricordo alcuni sindaci dai consigli comunali nell’era della prima repubblica:  Francesco Vella, Francesco Salpietro, Giovanni Cassarino, Nunzio Guttadauro, Paolo La Rosa, Vincenzo Giunta, Aldo Clementino, Giovanni Lopes, Pippo Vitale, Salvatore Placenti, Giacomo Ventura, Ottavio Liardi, Carmelo Bambili, Enzo Tignino. 

In cuor vostro potete dire che gli elettori gelesi abbiano saputo fare di meglio? 

Quanto alla stabilità dei sindaci, le gestioni commissariali non sono mancate anche con l’elezione diretta. Pollice verso sulla riforma? Le intenzioni erano buone, ma i paletti inseriti con destrezza perché i sindaci restassero con le mani legate, sono diventate una palla al piede. Il resto l’hanno fatto le lobby che hanno sostituito i partiti, da destra a sinistra, senza permettere aperture alla società civile. La politica come professione non può essere cambiata da una riforma, pretende un salto culturale. Chi entra in politica non ne esce più, fatte alcune eccezioni. 

La delusione è legittima. Le nomenclature hanno retto, sicché il salto di qualità della democrazia non c’è stato. Si pretese troppo? Mi sovviene una metafora di Popper. Si è arrivati, nelle intenzioni delle anime pie, a tirare la fune in aria ed appendersi ad essa, sperando che faccia presa, anche in modo precario, su qualche piccolo ramo. Causa persa in partenza. La differenza, comunque, l’ha fatta “la borsa”. Chi dispone di risorse, vince facile. 

Se mi chiedete comunque da che parte stare, i consigli comunali causidici e litigiosi o i sindaci dotati di presunti superpoteri, rispondo con una saggia locuzione romana: Senatores boni viri, senatus mala bestia. 

Coloro che, invece, stanno dalla parte del sindaco con i superpoteri, possono mettere sulla bilancia una verità inconfutabile degli etologi e dei botanici: la singola formica è uno degli animali più stupidi che esista sulla faccia della terra, ma la società delle formiche, il formicaio, è straordinariamente evoluto. Per il botanico il singolo albero vale poco, è la una colonia di alberi, che fa rete e si evolve. 

Gli uomini hanno inventato che l’unità fa la forza, ma è una fantasticheria.