Nostalgia canaglia, a ridateci le rondini

Nostalgia canaglia, a ridateci le rondini

Nostalgia, nostalgia canaglia/ Di una strada, di un amico, di un bar/ Di un paese che sogna e che sbaglia…Giorgio Parisi, Nobel per la Fisica, la evoca; non la canzonetta di Albano Carrisi, tormentone di tre decenni or sono. Ascolto in religioso silenzio le parole dello scienziato che spiegano la complessità, il modo giusto di vedere le cose, imparare a conoscerle comparandole. Lo fa attraverso il volo degli uccelli. 

Non c’è modo migliore di capire come va il mondo, che osservare le danze degli uccelli in cielo, secondo il professore. Ed è a questo punto che la nostalgia, affatto canaglia, si introduce in profondità nel cuore senza difese, facendomi sognare ad occhi aperti ore trascorse sul balcone di casa, in Via Cairoli, ad osservare il volo delle rondini, che a Gela arrivavano in primavera, indugiavano a lungo, e se ne andavano dopo avere offerto lo spettacolo incomparabile del cielo affollato. Guardare in controluce, all’ora del tramonto, le rondini che intrecciano i loro voli, resta dentro. Basta socchiudere gli occhi, ovunque sei, e torni a vederlo. 

Impallidito dal sole che si nasconde, il cielo affollato di rondini si prendeva tutto senza fatica. Mentre passeggiavo i miei rimorsi giovanili, inquieto, abbassando lo sguardo tra gli alberi radi che nascevano, inspiegabilmente, sui marciapiedi, donavo tutto alla danza delle creature in volo, ed era come sognare senza proposito né travaglio, o appoggiare il capo su un cuscino meditando sul futuro inevitabilmente roseo. Di stupori ed emozioni così non ne ho mai più rivissuto. 

Le rondini cambiavano frequentemente configurazione, a volte salendo a spirale, o disegnando cerchi concentrici, per poi esplodere, come un fuoco d’artificio, e tornare incredibilmente all’aspetto iniziale: sfidavano ogni legge della fisica. La simultaneità dei movimenti sembrava frutto di dedizione ed intenso esercizio. Sembrava che volessero farsi guardare, mostrare la loro perizia, abilità, eleganza. Una sinfonia muta: gli archi che pongono la domanda, i flauti che rispondono, un violino che s’insinua… Ciò che sembra confuso e disordinato in cielo diviene presto armonioso ed elegante, gli stormi viaggiano rapidi come onde marine che si danno appuntamento, appagate, sul bagnasciuga.

Ogni creatura vive degli altri, rimanendo se stessa. Le rondini pensano insieme, vivono insieme, si aiutano e si sostengono come una vera comunità. E’ questo che volevano dirmi gli uccelli in cielo? 

Me ne stavo ad osservarle senza stancarmi, consumando la merenda preferita, pane ed uva. Capivo confusamente di stare assistendo a qualcosa di straordinario, che quei cerchi disegnati in cielo non fossero gli accordi di uno spartito. 

Bellezza, caos, armonia, complessità, ricorda lo scienziato talentuoso, stupito di quelle apparizioni. Ciascuna rondine, ricorda gioioso, guarda quella che le sta accanto e segue lo stormo mentre altri stormi sembrano avvitarsi e risalire il cielo, quasi a proporre una sfida. Gli scienziati come Giorgio Parisi ci spiegano l’interazione fra il singolo e l’insieme, i comportamenti degli esseri viventi che si ripetono senza mai essere uguali.

Non c’è un ingegnere che ha progettato le leggi della natura, non c’è niente che non possa essere compreso e spiegato. Ma la conoscenza passa attraverso la comprensione della complessità. Le rondini abitano la loro complessità, così come noi abitiamo la nostra, immersi in un mondo che ci dà la sensazione di poterci muovere come vogliamo, sciamare come uno stormo di rondini, intrecciare i nostri voli liberi, senza dovere rispondere ad alcuno della direzione che il volo sceglie. 

Libertà e necessità ci lasciano muti, a chiederci come sia possibile che il caos divenga armonia, il disordine divenga legge, e la casualità abbia una logica. Il caos, ricorda lo scienziato, è lo pseudonimo di Dio, quando non vuole firmarsi di persona. Quello che interpretiamo come caos, commenta lo scienziato, sono cose che hanno la loro necessità. 

La nostalgia non è mai canaglia; è una brezza che attraversa l’anima, fa sopportare il passato, ti riporta dove vorresti essere, custodisce i ricordi, fa rivivere esperienze irripetibili, impedisce di abdicare a ciò che conta. E’ vero, serve avere un buon rapporto con se stessi; è vero, la paghi con struggenti ricordi, qualche lacrima, ma ne vale la pena: l’impossibilità di essere come una volta rende severo il chiostro che ti imprigiona; per allontanare i pensieri morti e le ombre inutili bisogna imitare le rondini, risalire il cielo e danzare insieme agli altri. La gelosia di se stessi, di come si era una volta, è sentimento di cui non si guarisce mai. 

Mi sono figurato, consumando la merenda nel balcone di casa, alla vigilia del mio ingresso nel futuro, che il mondo sarebbe stato gentile con i miei pensieri, e siccome quel mondo era Gela, ho creduto di dovere accorciare il tempo dedicato alle osservazioni degli stormi, ho creduto anche che il Creatore dovesse fare la sua parte ed io la mia, di non dovere abdicare a nulla, che si dovesse far sanguinare il cuore se ne valesse la pena; che una nebbia velenosa, irragirabile, dovesse essere attraversata per avere la proprietà esclusiva della propria esistenza. Ero pronto a pagare sull’altare del futuro radioso, al costo del presente generoso e di un passato marginale. 

Oggi vivo senza perdermi il piacere della nostalgia e condividerne gli umori. Nostalgia affatto canaglia; il progresso, piuttosto, di un essere umano o di una collettività; quello sì, lo giudico canaglia: ha rubato le rondini di primavera a quella parte, seppur piccola, del pianeta che usava ospitare le creature alate, perché riposassero, prima di riprendere il viaggio verso l’Africa. Una domanda me la faccio, perciò: se il cielo di Gela mi ha regalato la visione delle creature alate, una ragione deve esserci.

La mia generazione ha tanto da farsi perdonare. Di non avere osservato il cielo, di non aver capito il progresso in modo da coglierne il buono che c’era, e avere accettato le cose come sono. Forse non ha nemmeno il diritto di indignarsi se a governare siano stati, e sono, poveri autori di commedie tristi, del tutto incapaci di capire ed imitare le rondini. 

Se mi chiedessero che cosa ti serve, avrei la risposta pronta: starmene davanti al balcone e scrutare il cielo di Gela ed attendere che arrivino le rondini nel lento calare della sera, e raccontare al mondo che il progresso è un cielo affollato di uccelli. Vorrei altro, naturalmente. Per esempio: essere un po' eccentrico, stralunato, guidare con maestria i sogni notturni, sottrarmi a quell’imperativo categorico che mi ingiunge ad innamorarmi delle cose e delle persone senza che ne valga la pena. Vorrei la Gela innamorata di se stessa e governata con passione. E sì, avete capito: voglio tanto, troppo.