l’Editoriale/ Nel cielo di Bascapè morì Gela

l’Editoriale/ Nel cielo di Bascapè morì Gela

Mi sono tante volte chiesto quale effetto eserciti la memoria sui ricordi che segnano la nostra vita, o quella degli altri, se è legata in qualche modo alla nostra, e non sono mai riuscito a darmi una risposta univoca, che potesse valere, se non per sempre, a lungo.

Talvolta i ricordi sedimentano nella nostra coscienza, fanno il loro mestiere, silenti e inafferrabili. Ci formano, ci cambiano, ci strutturano o destrutturano, senza chiederci il permesso; talaltra, invece, arrivano in testa ai nostri pensieri, s’intrufolano nei sogni, filtrano piaceri e dispiaceri, sono trasparenti, si accomodano nella nostra mente, ed hanno un volto, un suono, una immagine.

C’ è infine una memoria che ha bisogno di tempo, molto tempo, per apparire e imporre la sua presenza. Quando ciò avviene, chi legge, ascolta, arriccia il naso, se si tratta di una testimonianza, che avrebbe potuto suscitare interesse, aiutare la verità, gettare una luce su un episodio che ha colpito l’opinione pubblica. Perché, insomma, le testimonianze arrivano con tanto ritardo?

Queste osservazioni sono state sollecitate dalla lettura di un articolo, su La Repubblica, con il quale Giuseppe Carlo Marini, docente di storia contemporanea all’Università di Palermo, ha raccontato di avere vissuto la tragedia di Bascapè, nella quale perse la vita il presidente dell’Eni, Enrico Mattei, se non da protagonista da comprimario. Aspirante giornalista, specializzando nella Scuola di formazione Idrocarburi promossa dall’Eni, Marino, ventiduenne, fu fra i primi a recarsi sul campo dopo il disastro aereo, perché la Scuola era vicina a Bascapè.

Le immagini che si presentarono davanti ai suoi occhi furono terrificanti: i poveri resti delle vittime erano sparsi perfino sulla cima degli alberi, a riprova del fatto, incontrovertibile, che il velivolo sul quale Mattei viaggiava, la tarda sera del 27 ottobre 1952, era esploso in volo a causa di una bomba, innescata alla procedura di avvicinamento ed atterraggio. 

Marini racconta di avere avuto la notizia da un dirigente dell’Eni, l’ingegnere Domini della Meduna. Mattei è morto, un attentato, fu la laconica inequivocabile informazione. C’è dell’altro: il professore, che oggi ha l’età di 81 anni, ricorda di avere partecipato ad un meeting con giornalisti, accorsi sul posto, e di avere manifestato in quella circostanza il sospetto che Mattei fosse rimasto vittima di un sabotaggio e che, a causa di ciò, sarebbe stato poi avvicinato da un misterioso personaggio, che indossava un impermeabile, nel luogo del disastro. 

L’uomo con l’impermeabile gli avrebbe sconsigliato di dare una versione diversa dall’incidente, come causa del disastro. Piuttosto che accettare il consiglio però il giovane Marini chiamò l’allora direttore del Resto del Carlino, Giovanni Spadolini, raccontandogli che a suo avviso il velivolo di Mattei era stato sabotato. L’aspirante giornalista, insomma, aveva le carte in regola per entrare nel mondo dell’informazione.

Non è cosa per te, osservò Spadolini, probabilmente sollecitato dalla foga garibaldina con cui Marino stava affrontando il battesimo alla professione. A farla breve, Spadolini, mandò un inviato a Bascapè, pregando Marini di raccogliere le informazioni sul campo,. “Sei uno storico, non un giornalista, stai lontano dal giornalismo”. 

L’esternazione del professore, a distanza di sessanta anni, ci rivela che il consiglio di Spadolini è stato accolto alla lettera. L’uomo con l’impermeabile, la notizia dell’ingegnere Domini della Meduna, e gli sconsigli del saggio direttore del Resto del Carlino, hanno parcheggiato per sessanta anni e – spogliati dell’urgenza delle ore successive al sabotaggio – sono stati divulgati con una lucidità impressionante. Non sorprende né induce a sospetti; impossibile dimenticare le immagini di una catastrofe aerea, difficile, a caldo, dare il giusto peso alle cose. 

Perché racconto l’episodio? Certo, il circuito imponderabile della memoria, il bisogno che i ricordi siano spogliati dell’urgenza e delle implicazioni che esse hanno, i dubbi che sollecitano sempre, ma anche la sorte di Gela, legata ad Enrico Mattei (come la storia s’incaricherà di affermare), e un particolare, sfuggito sia a Marino, ottantenne, quanto al cronista di Repubblica.

L’ingegnere Domini della Meduna non era soltanto un tecnico di alto rango nell’Eni, ma anche uno dei componenti della X Mas, reparto di incursori, protagonisti di blitz leggendari, corpo militare repubblichino comandato da Junio Valerio Borghese, l’autore del golpe abortito anche per il passo indietro di Cosa Nostra. 

Dopo l'8 settembre 1943 Mauro De Mauro si arruolò nella X Mas; scomparve nel 1970, rapito sotto casa sua, in Viale delle Magnolie a Palermo. Sia nel disastro di Bascapè quanto nel rapimento di Viale delle Magnolie, c’è la mano della mafia, che nel ventennio successivo alla fine del conflitto mondiale e fino alla caduta del Muro di Berlino, ha mantenuto un cordone ombelicale con Cosa nostra statunitense, dedicandosi al lavoro sporco per conto dei Servizi occidentali (in cambio di significative libertà nella droga e armi), impegnati a contenere la pressione sovietica sulla frontiera est dell’Europa. 

Mauro De Mauro rivelò in famiglia, alla vigilia del suo rapimento, di avere per le mani uno scoop che avrebbe fratto rumore, e accennò ad “un presidente”, al centro dell’affaire di cui si stava occupando. Chi fosse il presidente non si è mai saputo. Il regista Francesco Rosi gli affidò il compito di collaborare alla sceneggiatura del docu-film sul caso Mattei, che sarebbe uscito nelle sale cinematografiche con Gian Maria Volontè nel ruolo del presidente dell’Eni. 

Mauro, con cui ho lavorato al giornale l’Ora, lavorò alacremente al “caso Mattei”, e durante le sue indagini venne a Gela, perché Gela, con Gagliano Castelferrato e Catania (aeroporto), furono i luoghi in cui il presidente Mattei si recò prima di partire per Milano a bordo del velivolo che sarebbe esploso in volo.

Cenammo insieme, non ho ricordo di questioni “sensibili” nel corso della nostra conversazione; ricordo piuttosto il suo stato emotivo, una sorta di preoccupazione non nascosta ma nemmeno ostentata, che non sollecitò più di tanto la mia apprensione. Mauro stava vivendo al giornale giornate difficili: da firma di punta e autore di in chieste sulla mafia di grande impatto, era passato alla cronaca sportiva, e non certo per sua volontà. Sospetto una voglia di riscatto affidata all’incarico ricevuto da Rosi. 

Leggendo i ricordi di Carlo Maria Marino, quell’ingegnere della X Mas che rivela per primo l’origine del disastro aereo, mi ha suggerito un collegamento con Mauro de Mauro. Mi sono chiesto se lo scoop di Mauro sia stato ispirato dal compagno d’armi del reparto repubblichino, Domini della Meduna, colui che per primo, ed in modo inequivocabile, parlò di sabotaggio. 

Il caso Mattei, com’è noto, è stato archiviato. Si è arrivati vicini alla verità, alcuni magistrati ed investigatori hanno raccolto indizi importanti, ma il mistero, Mattei-De Mauro, non è stato risolto, semmai s’è infittito. Ed ogni volta che arriva in superficie qualcos’altro sulla vicenda, il sospetto del sabotaggio si consolida, ma mai al punto da indicare precise responsabilità: mandanti ed esecutori.

Ciò che ottiene un consenso unanime è il movente: Mattei aveva sparigliato le carte nell’infido mondo del petrolio, l’oro nero per il quale sono morti e continuano a morire, in guerra e in pace, migliaia di uomini. L’Eni s’era messa di traverso: rompendo il cartello dei paesi produttori, offre accordi più favorevoli; aiuta gli indipendentisti algerini contro la Francia per portare il gas in Italia, instaura un entente cordiale con i sovietici, facendo tremare i polsi ai vigilantes di Yalta; caccia via dalla Sicilia le compagnie petrolifere straniere. 

Insieme ad Adriano Olivetti, illuminato imprenditore, il capitano coraggioso dell’industria pubblica è il volto nuovo dell’Italia post-fascista. Sia i computer Olivetti, i primi a sbarcare nel mercato, quanto i pozzi petroliferi di Gela, subiscono una sorte avversa. Difficile persuadersi che la débâcle sia da addebitare a circostanze casuali, che l’affondamento di Ivrea e San Donato Milanese, format Mattei, sia dovuto al fato cinico e baro. 

Fra le “Morti opportune”, raccontate in un prezioso libro dal magistrato Alberto di Pisa, scomparso recentemente, c’è una solida raccolta di cadaveri eccellenti, vittime del caso, seppelliti in un alone di mistero. Alberto Di Pisa non aveva dubbi sulla causa del disastro aereo di Bascapè; e insieme a lui, altri magistrati che si sono fermati sulla soglia dell’incriminazione per la difficoltà di accedere a prove inoppugnabili. E’ come se qualcuno o qualcosa avesse posto un sigillo sui misteri d’Italia, determinandone la inalterabilità. Ci sono fatti che non riescono mai a diventare tali, ed entrare nelle aule dei tribunali, ma rimangono interpretazioni.