Siamo figli delle nuvole

Siamo figli delle nuvole

Siamo figli delle nuvole, fili di una trama oscura.

Facciamo fatica ad alzare gli occhi quando il sole alto; la luce ci abbaglia, obbliga a tenere la testa bassa, contare i passi uno dopo l’altro. Ed è impossibile voltarsi indietro, il presente incombe, fa paura, impone una egemonia che ci spoglia della nostra identità. L’anima ha bisogno di vedere al di là delle nuvole; è lì, nell’immaginario intriso di spirito, che si costruisce l’idea di sé e dell’universo in cui viviamo. L’universo breve, intendo: la comunità, il luogo in cui viviamo. 

Se chiedessi a un gelese che idea si è fatta della sua città, una forma di sé allargata alla comunità, quale risposte dovrei attendermi, ammesso che ne otterrei una? Le radici saprei trovarle? E quanto profonde sarebbero? Nella parabola sulla semina Gesù, Vangelo di Luca, ci ricorda quanto volubili e deboli siano le radici: se il seme si getta sulla strada, viene calpestato e gli uccelli se ne nutrono; se cade sulla pietra, appena germogliata, secca perché non c’è umidità; gettato tra i rovi, viene soffocato. Solo una parte cade sul terreno buono, qui germoglia e fa frutti. 

Gesù è severo, ma conosce la realtà. Il terreno buono dà buoni frutti. Ed il terreno è la natura, il luogo in cui viviamo, il terreno rassodato, curato, amato; o trascurato, ignorato, se non addirittura odiato e maledetto. Quando le cose vanno male, con chi ce la prendiamo, se non con il terreno che calpestiamo, e quelli che ci vivono insieme a noi.

La quotidianità non ci dà tregua, ci tiene la testa bassa, facendoci contare i passi. L’universo breve in cui viviamo può diventare uno stato di vuoto, l’alibi che ci rende corrivi, perché il vuoto non è il nulla, ma uno stato materiale, nel quale fluttiamo, smarriti, intorpiditi, disamorati, affaccendati senza tregua. 

Il rapporto con la realtà è ben più complicato di quanto immaginiamo. Come possiamo rassodare il terreno, e mettere radici robuste, se non attraverso la conoscenza, l’istruzione, la cultura, l’amore per ciò che pur non essendo nostro, ci appartiene. E la città ci appartiene, la sua storia ci appartiene, il suo presente ci appartiene. 

Quale risposta mi aspetto, allora, se domando quale sia l’idea che i gelesi hanno di Gela? Provo ad indovinare: Gela antica, sette secoli prima di Cristo. Poi, la contemporaneità: lo sbarco degli Alleati, il petrolio, l’industrializzazione. L’ultimo conflitto mondiale si studia poco a scuola, il petrolio per i ragazzi è solo folklore o miasmi residui di un inquinamento selvaggio.

Dove possono apprendere Gela com’è i nostri ragazzi? La loro crescita esperienziale è affidata alle nozioni apprese a scuola, in quota minoritaria, e ai social, la rete, l’intrattenimento televisivo, il cinema, la musica in quota maggioritaria. Sono stranieri a casa loro. Piuttosto che paventare la sostituzione etnica, come fanno i nuovi governanti d’Italia, dovremmo chiederci cosa stiamo diventando, restando italianissimi, sicilianissimi, gelesissimi. 

Non mi sento di impoverire la questione mandando sul banco dei deputati le istituzioni locali. Potrei elaborare una pagella ricca di insufficienze, ma non mi sentirei a posto con la coscienza. I voti, pessimi, sarebbero meritati, ma non ci farebbero capire come stanno le cose. Sarebbe come far volare gli stracci.

Le istituzioni sono lo specchio di ciò che la città è, inutile cercare alibi. Il potere di selezionare la cultura spetta a loro, una cultura pro domo sua, così miope da farli vedere (o stravedere) stando con la testa in giù, appesi ad un albero, magari contenti di sé, perché nonostante la scomoda posizione, guardano la realtà dalla cima dell’albero. La cultura come strumento di potere, imprestata alla burocrazia dell’ente locale, è icona dell’inerzia.

“La cultura non va mai tagliata, al limite ignorata, come faccio io…”, ci fa sorridere quel genio di Rosario Fiorello. Eppure, ciò che essa ci restituisce è di gran lunga maggiore di ciò che ci viene richiesto. 

Non ho notizie accurate sulle iniziative culturali di Gela, so tuttavia che ce ne sono tante. Mi è capitato di assistere ad alcune performances musicali, e la dedizione dei giovani e non più giovani all’impegno che si sono assunti, mi è parsa commovente. Ho constatato  con rammarico che a tanto impegno non corrisponde un livello eccellente. La povertà delle performances, non mi riferisco segnatamente alla musica, è dovuto all’assenza di maestri. Laddove si investe sulla cultura, si cercano talenti, si aprono scuole di formazione, in ogni campo, dalla scrittura creativa al teatro, la musica ed altro. 

Ventisei secoli or sono Gela accolse pensatori e poeti, al pari di Siracusa, ed ancora oggi le pagine di storia antica citano la città greca, la cui memoria è stata rubata dalla famelica caccia dei ladri d’arte ai tesori.

La municipalità, nel recente passato, ha chiamato al capezzale di Gela mafia-ville, devastata dalle truci bande di criminali, qualche luminare della comunicazione, che ha suonato la grancassa del narcisismo istituzionale alla costante ricerca del consenso, piuttosto che suonare il flauto della dolce memoria. 

Le aspettative sono alte, specie da parte dei dormienti, e pochi prendono il posto che loro compete per mettere ordine alle priorità, ma ciò che accade è una continua negoziazione su ciò che occorre fare, sui principi politici, sociali, esistenziali; ci si rifugia nel “vorrei ma non posso”, timorosi di affrontare questioni su cui non si capisce come si possa far conto, perché la partita del dare ed avere non ha nulla a che vedere con la crescita culturale e civile. Il rapporto costi-benefici non può essere numerato.

Creare la cornice, dentro la quale incubare le arti, resuscitare la storia, guadagnare la diversità per mostrarla e confrontarsi, richiede lungimiranza e un galateo istituzionale, che come Monsignor della Casa, il suo inventore, privilegia l’ossequio e la cortesia verso l’altro, quando si apre una porta: prima il bene pubblico, e poi la cosmesi. 

La comunicazione è vanteria, è ormai pregna di emotività, bisogna scalare l’Everest per trasmettere qualcosa che arrivi al destinatario. Si tagliano le teste e si commettono stragi per far sapere di esserci.  La cifra di novità si traduce in uno stato emozionale. Ionesco credeva che la realtà non fosse realista, e quindi non bisogna scandalizzarsi se l’emotività dà scacco matto ai fatti. La nascita e la crescita di una cultura cambia costantemente, vive del suo tempo. In più, vediamo ciò che vogliamo. 

La lista degli inciampi dunque è lunga, non resta che affidarsi all’animo fresco dei giovani, facendoli innamorare del sapere; confidare nella loro voglia di vita immediata, forse più intensa. Disponendo degli strumenti che servono, la pervasività della cultura internazionale non li farebbe stranieri in patria; allargherebbe il loro orizzonte, offrendo una gamma di contraddizioni stimolanti, magari con impensabili effetti positivi. Ci si può anche fare manipolare, se si possiede una identità, le conoscenze, le grandi passioni. 

Torno al principio: qual è l’idea di Gela che i gelesi hanno? La risposta l’ho trovata lontano, in una prof. che vive da sempre negli Stati Uniti, Edi Giunta, figlia di Vincenzo Giunta, uno degli intellettuali che fece la storia culturale di Gela nel dopoguerra.

Quando Nathalie Handal mi ha invitato a far parte del suo "The Writer and the City" per Words Without Borders, scrive Edi Giunta, non ho scelto Jersey City, Miami, o Schenectady, città americane dove ho vissuto. Non ho nemmeno scelto la mia amata Catania, dove ho vissuto per sette anni…, ho voluto ripercorrere i miei passi verso Gela, la città che ho lasciato da adolescente ribelle) e dove sono tornata con amore ambivalente e spesso recalcitrante. 

«Ma forse l'amore ambivalente e complicato è quello che ci commuove e ci trasforma più profondamente. Mentre ho risposto alle domande delicate e scattanti di Nathalie,…mi sono sentita sempre più vicino alla mia città natale. Ho sentito le mie radici affondare nel profondo dell'anima della mia prima città, la città che mio padre, Vincenzo Giunta, amava ferocemente e incondizionatamente».

Non avrei saputo dire meglio ciò che serve ai gelesi. Bisogna davvero starne lontani per amare la propria terra?