Lo sbarco, il tesoretto e il flop. Ancora uno...

Lo sbarco, il tesoretto e il flop. Ancora uno...

La memoria va preservata, ma anche compresa e, nel tempo, aggiornata.

Ogni epoca ha le sue sensibilità, un contesto diverso, che può gettare luci ed ombre sui fatti, perfino snaturarli, addirittura negarli, accrescerne la rilevanza. Succede anche per gli uomini, la memoria è tradimentosa. Riesce a maltrattare i migliori e sollevare sull’altare i peggiori.  Lo sbarco degli Alleati in Sicilia, dei soldati americani a Gela, è uno degli eventi più importanti del XIX secolo, di sicuro quello che ci obbliga, ancora oggi, a fare i conti con la storia, con la vita e la morte di tanti uomini e donne, che vanno onorati. Esso evoca sentimenti, passioni, idee forti e pensieri leggeri.

C’è chi ricorda lo sbarco per la dedizione ed il patriottismo dei soldati italiani, della Divisione Livorno in particolare, che dalla pianura ebbe l’immane compito di fermare i marines.

Quei due piccoli carri armati che arrivano in Piazza Umberto I, ignari della massiccia presenza dei marines, hanno colpito l’immaginazione di molti: I due ufficiali che affacciano la testa dai carri e vengono falciati dal fuoco nemico, sono diventati l’icona del coraggio e del dovere, accettato fino alle estreme conseguenze. Impossibile dimenticarli, non c’ è niente che possa scalfirne la memoria.

Destano compassione, ammirazione. Poi, però, arrivano le domande: per che cosa e per chi combattevano? Per la patria, certo. La patria di Mussolini, il despota, e di Vittorio Emanuele, il monarca scappato a Brindisi? 

C’è chi ricorda lo sbarco per i civili innocenti, che si trovarono nel posto sbagliato durante lo sbarco, e chi invece lo inneggia come l’azione che diede il via alla liberazione del Paese dal nazifascismo.

Qualunque sia il giudizio, esso, tuttavia, conserva una singolare anomalia: gli invasori furono accolti come liberatori. E’ innegabile. Eppure, se ne parla e se ne scrive con parsimonia, con pudore, come se ci si dovesse vergognare, quasi che si siano voltate le spalle al Tricolore, a Roma, ai valori della tradizione. Una letteratura ideologica e poco storica ha offerto a questo affaticato ricordo un provvidenziale alibi. 

L’accoglienza è stata soprattutto messa in ombra dalla co-belligeranza della mafia con gli americani, da un comparaggio che avrebbe consegnato la Sicilia ai boss in cambio di un decisivo supporto di intelligence e di uomini alla causa degli Alleati. L’altra narrazione, italiani voltagabbana, è ancora peggiore della prima, e ha trovato ascolto, nel tempo.

Ma stare dalla parte del nemico che entra a casa tua e viene ben accolto, presuppone una coscienza forte, una scelta di campo, capace di conciliare le ragioni della patria e della libertà. L’accoglienza ci ricorda che la bandiera sventola, ed il cuore batte, quando soffia il vento della libertà.

La memoria oggi serve a ridare ai fatti la realtà, che è ben diversa da come è stata spesso narrata. La verità è che i siciliani non ebbero bisogno di imbracciare le armi e salire in montagna per guadagnare la libertà cui aspiravano: accolsero il “nemico”, che spesso parlava la loro lingua, con animo grato, consapevoli che stava cominciando un’altra storia.

E’ indubbio, intendiamoci, che l’intelligence americana abbia svolto un laborioso ed utile lavoro di preparazione allo sbarco, e che si sia instaurata una rete di complicità con i boss e perfino con il banditismo, per rendere più agevole lo sbarco, ma è altrettanto indubbio che i siciliani si siano schierati dalla parte degli invasori e siano stati “partigiani” nel cuore e nella ragione. 

Ci sono, dunque, tante buone ragioni perché il 10 luglio 1943, giorno dello sbarco, sia ricordato. Con quali modalità e obiettivi? Da alcuni mesi si ragiona su questo, perché c’è un tesoretto da spendere. Come farne una festa, un anniversario gioioso, e insieme un’occasione per riflettere sul nostro tempo: la pace, la democrazia, le libertà individuali e collettive, offese dalla dittatura nel Ventennio. Sappiamo che le risorse provengono da uno stanziamento deciso nel 2014 e destinato a iniziative ed eventi che migliorino l’immagine di Gela. 

L’anniversario dello sbarco dovrebbe essere l’evento trainante, il primo di tanti altri, cui assegnare la missione di cosmesi. Si spenderebbero un milione e duecentomila euro. Sono tanti, sicché c’è chi, e non sorprende, pensa che le priorità di Gela siano altre. L’opposizionismo è l’ideologia prevalente, non sempre sollecitata da buoni propositi. Il consiglio comunale dovrebbe essere convocato per una seduta monotematica, per decidere il da farsi. C’è perciò il rischio che non se ne faccia niente. Ed è un rischio da non correre. Pare, per quanto ne so, che non ci siano i tempi per recuperare i ritardi.

Come superare l’impasse, sempre che sia possibile. Le buone ragioni di chi ricorda i bisogni più urgenti della città avrebbero dovuto essere affrontate a tempo debito. Non mi accusate di banale faciloneria, la questione è semplice, ma si tratta di spendere bene le risorse, realizzando opere legate all’anniversario da ricordare.

E’ vero che gli eventi culturali possono lasciare una impronta duratura quando coinvolgono le comunità, e non hanno bisogno di un manufatto che ne attestino la validità, ma è altrettanto vero che le risorse possano servire a realizzare opere che diano lustro all’evento storico e contribuiscano a ricordarne la rilevanza ogni giorno, non soltanto in occasione dell’anniversario. 

Sul litorale di Gela, all’ingresso del pontile sbarcatoio, è stata realizzata una opera dedicata allo sbarco: è una installazione, che  raffigura “le ali della libertà”. Essa, tuttavia, non segnala l’accesso al pontile sbarcatoio, icona dello sbarco, ma la sua chiusura al traffico, anche pedonale, perché ormai da tre decenni circa il pontile è spezzato nella parte centrale. Non è stato colpito dalle bombe della flotta americana, un migliaio di navi nel golfo, ma è collassato per la sua vetustà. 

I meriti del pontile sono notevoli, per molti anni il pontile ha permesso un fiorente rapporto commerciale con Malta, e contribuito notevolmente allo sviluppo della pesca, quando non esisteva il porto rifugio (nato male e vissuto peggio).

Era attrezzato per il carico e scarico della merce, e negli anni sessanta era meta per i giovani tuffatori locali, nelle serate estive la tradizionale passeggiata a mare dei gelesi. Un’appendice della città, utile ed amata, non sfiorata dalla più potente flotta militare della storia. Venne risparmiato, forse non solo per amore: fu utilizzato dai marines, per quanto possibile. Ora sta lì a intristire lo sguardo, protetto dalle ali della libertà, quasi a dispetto. 

Ridarlo alla città sarebbe un bel regalo. Meglio non contarci però. Resta il gran lavoro fatto da un comitato di tecnici ed esperti, incaricato di pianificare le iniziative per ricordare lo sbarco. Il comitato ha messo nero su bianco su tutto, con il bilancino del droghiere. Tutto a posto, meno che una convincente motivazione ed una informazione accurata sulla destinazione delle risorse. Immagino la