La mia strana Gela vista dal New Jersey

La mia strana Gela vista dal New Jersey

La città e lo scrittore: Edvige Giunta (nella foto), intervistata da Nathalie Handal. Nostalgia, vecchi ricordi, forti radici, lo sguardo amoroso di una gelese, che ha incontrato il successo, ma non ha dimenticato Gela. Anzi… 

 – Puoi descrivere lo stato d'animo di Gela come lo senti/lo vedi? 

«La mia Gela ha tanti modi di essere: antica, moderna, retrograda, ribelle, bloccata, libera, passionale, indolente, rassegnata, resiliente, inventiva, opprimente, bella, brutta, confortante, negligente. Ciò che mi fa accedere alle tante atmosfere della città dove sono nata, e dove sono nati i miei genitori, nonni, bisnonni, trisnonni e altri antenati prima di loro (non i miei figli, nati in un altro continente), è un miscuglio di angoscia e desiderio che accompagna ogni mio ritorno. Sono una delle figlie prodighe di Gela e mi porto dentro un rodente senso di colpa dovuto al fatto che me ne sono andata, ma anche risentimento e tristezza perché alcuni aspetti di Gela mi hanno spinto ad andarmene. 

Da emigrata, vivo la partenza, l'arrivo e il ritorno come uno stato confuso di essere e non essere nella e della città che mi ha fatto: Gela, la mia strana Gela, un'anima provinciale in un corpo urbano cresciuto quasi in maniera deforme, uno scontro di antico e moderno. Dall'aeroporto di Catania ci avviamo verso Gela. Scruto la strada alla ricerca di punti di riferimento familiari che potrebbero suscitare il senso di un agognato ritorno a casa. Guardo fuori dal finestrino e rifletto sulla parola italiana “pendolare”, da pendolo. Rimango distaccata, desiderosa di arrivare e ansiosa che il viaggio duri più a lungo, quel che basta per ritrovare la sensazione di casa che ho perso nel viaggio di andata e ritorno, avanti e indietro, una pendolare per tutta la vita.  A metà strada da Gela, mi conforta la vista familiare di una necropoli sulla parete rocciosa. Più vicino a Gela, u Castedduzzu, i ruderi di un castello abbandonato che mio padre ci indicava quando partivamo o tornavamo a Gela. Infine la raffineria di petrolio, terrificante divinità ctonia moderna. Mi irrigidisco. È impossibile ignorare questo spettacolo quando si entra in città. Ogni ritorno è contaminato, ogni dolce memoria soffocata dalle immancabili ciminiere». 

– Qual è il tuo ricordo più forte di questa città?

«La devastazione ambientale causata dalla raffineria di petrolio e le sue molteplici conseguenze per il luogo e la popolazione. L'industria ha invaso Gela quando sono nata. Della mia infanzia ricordo la distesa ancora pura della spiaggia sabbiosa, il Mediterraneo incontaminato - e poi arrivarono le bollicine schiumose nel mare, le pesche annerite, i sacchetti di plastica, doni velenosi della raffineria. 

L'estate scorsa ho chiesto a mio marito di farmi una foto fuori dal Museo Archeologico temporaneamente chiuso. Dietro di me, da un lato c'è l'unica colonna superstite del tempio di Atena Lindia, simbolo della forza, della resistenza, della bellezza della città. Dall'altra, nella stessa linea di visione, una torre della raffineria, quel mostruoso tempio moderno dove è stato sacrificato il corpo di Gela, la sua terra fertile, il suo mare, la sua gente. Sono legata a entrambe, che lo voglia o no. Mio padre, fervente ambientalista, mi ha instillato un'avversione per l'industria petrolifera che sento ancora profondamente tredici anni dopo la sua morte e tanti anni dopo che ho lasciato Gela. 

– Qual è il dettaglio più straordinario della città, quello che spesso passa inosservato? 

«Incontri notturni. Sulla spiaggia illuminata dalla luna, lo scheletro del vecchio Lido La Conchiglia ti fissa, tramortito dalla sua attuale condizione di moderno rudere archeologico. Sostieni il suo sguardo vuoto. Quando cammini per la semioscura Via Cairoli, ti aspetti che qualche fantasma si sporga dai balconi, saluti e cali un cesto con biscotti raffermi da offrirti. Nella piazza deserta, sali i gradini e appoggi le mani su una delle colonne della Cattedrale della Madonna di Alemanna, un tempo sede del tempio di Demetra. Anche tua figlia e tua nipote mettono le mani su quella colonna. Chiudi gli occhi. La pietra vibra sotto le tue dita, diventa soffice come la ricotta calda, e ti senti trascinata in un'antica riconnessione». 

– Quale/i scrittore/i di Gela dovremmo leggere? 

«Ci sono molti scrittori gelesi nella mia libreria, come lo storico locale Nuccio Mulè, che ha svolto uno straordinario lavoro di recupero della storia e delle storie di Gela. Salvatore Parlagreco, nel cui romanzo Il Cavaliere e il Monsignore mio padre appare nel personaggio del Professore. Tra le scrittrici contemporanee, un posto speciale è occupato da Silvana Grasso, valorosa scrittrice gelese, pur non essendo nata a Gela. Sento un legame speciale con Maria Rosa Cutrufelli, anche lei non gelese ma visse a Gela nei primi anni '70 e fondatrice del gruppo Lotta Femminista. In quegli anni, Cutrufelli ispirò il mio nascente femminismo. Nel 2023 Soho Press ha pubblicato il suo romanzo Canto al deserto: Storia di Tina, soldato di mafia, tradotto in inglese da Robin Pickering-Iazzi con il titolo Tina, Mafia Soldier. Amo quel libro, non solo per la sua interpretazione unicamente femminista della mafia, ma perché Gela è un personaggio tanto quanto la giovane soldatina mafiosa al centro della ricerca della narratrice».

– C'è un posto qui in cui torni spesso?

«Quando rivisito Gela nella memoria, torno alla mia adolescenza, con i suoi riti di iniziazione, soprattutto la passeggiata sul Corso. Da bambini eravamo abituati a camminare a passo lento per la strada principale con le nostre madri. Le madri si fermavano in un negozio o a chiacchierare con amiche. Era noioso. Non vedevamo l'ora che arrivasse il gelato alla Gelateria Gagliano. Ma l'adolescenza ci regalava una passeggiata nuova di zecca. Passavamo ore a prepararci per la passeggiata sul Corso, questa volta con le nostre amiche. Speravamo di vedere o addirittura fermarci a parlare con i ragazzi che ci piacevano. Dovevamo essere consapevoli della città che ci scrutava, quindi c'era segretezza ed eccitazione. Lasciare il Corso per una festa da ballo dove andavamo senza il permesso dei nostri genitori, o un altrettanto proibito giro in moto, era peccaminoso e delizioso. Decenni dopo, ricordo così bene quel periodo, la speranza, la violazione delle regole, l'ansia, la vitalità e l'intimità dell'amicizia tra ragazze. Quando torno a Gela e vado sul Corso per sbrigare delle faccende o per una rara passeggiata notturna, soprattutto con mio fratello e mia sorella, o un’amica della mia lontana adolescenza, la giovane Gela che ho lasciato mi sorprende: “Ehi, sono ancora qui"».

   

– C'è un luogo letterario iconico che dovremmo conoscere?

«La spiaggia di Gela dove, secondo la leggenda, Eschilo fu ucciso da una tartaruga lasciata cadere da un'aquila che scambiò la testa pelata del drammaturgo per una roccia. In “A un poeta nemico”, Salvatore Quasimodo scrive: “Là Eschilo esule/misurò versi e passi sconsolati,/ in quel golfo arso l’aquila lo vide/e fu l’ultimo giorno”. Ancora oggi Eschilo fa parte dell'iconografia, della topografia e della memoria di Gela».

– Ci sono città nascoste all'interno di questa città che ti hanno incuriosito o sedotto?

«Mi sono sempre sentita attratta dall'antica Gela greca, in particolare la Gela di Demetra, Kore e la Gorgone. Gela è un palinsesto di città. Pensa ai vari nomi della città nel corso dei secoli. La polis greca era originariamente chiamata Lindos, dal nome della protettrice dell'antica Gela, Atena Lindia, la stessa della solitaria colonna dorica che si affaccia sulla raffineria. Poi è diventata Gela. Nei secoli Gela è stata anche chiamata la Città delle Colonne ed Eraclea. Ogni nome racchiude un'altra storia, un'altra città. Mio padre è nato a Gela quando si chiamava Terranova di Sicilia. Nel 1927 fu ribattezzata Gela da un podestà fascista in quella frenesia di rivendicare un passato di gloria militare. Ovunque c'è uno strato nascosto. Ad esempio, Macchitella, il villaggio residenziale creato dalla raffineria di petrolio per i suoi operai negli anni '60, era allora un'altra città, così diversa dalla vecchia Gela nell'architettura e nel modo di vivere». 

– Dove vive la passione qui?

«Pane e panelle, soffici focacce di pane con frittelle di ceci fritte, sale e pepe, consumate calde. Conversazioni con il vecchio che siede su una sedia di fronte alle mura greche e vende cestini di gelsi e fichi appena colti dal suo orto. Granita al pistacchio alla Torrefazione, con o senza brioche. Caffè freddo, fatto alla vecchia maniera, con ghiaccio finemente tritato, quasi liquefatto, sorseggiato da bicchierini insieme a mio marito in un bar sul Lungomare. La musica della voce di mio padre, che si innalza e si abbassa mentre mi racconta la storia di Gela. Mio figlio che parla un dialetto siciliano incerto ma sicuro. Mia madre e mia figlia insieme, le mani immerse nell'impasto della pizza. La palma che mia madre ha trapiantato da un vaso e ora troneggia nel nostro giardino. Raccogliere conchiglie sulla riva di Manfria con il mio pronipotino di due anni, dopo aver passeggiato su quella stessa spiaggia con sua madre quando era incinta di lui, e quando lei era bambina. In ginocchio con mio fratello mentre mi mostra una chiesa abbandonata, non più accessibile, ma visibile attraverso una grata all'ingresso del vecchio cimitero. Incontri con i fantasmi: le loro passioni sono il Dna emotivo della mia Gela».

Nota: Questa intervista è stata pubblicata per la prima volta nell’originale inglese in Words without Borders. ©2023 Nathalie Handal; ©2023 Edvige Giunta.  Tutti i diritti riservati