Il “caso Gela”approda all’università

Il “caso Gela”approda all’università

Da Gela, intrecciando storia ambientale e storia locale, è possibile ripercorrere un pezzo di storia del nostro Meridione e del nostro Paese dagli anni delle grandi trasformazioni dell’«età dell’oro» (dagli anni cinquanta al 1973) fino ai giorni nostri.

Stagioni diverse della nostra storia recente in cui la presenza di produzioni industriali pesanti e il loro impatto sull’ambiente e sulle collettività circostanti, a Gela come in altre realtà similari, ha alimentato speranze e suscitato reazioni diverse…I casi recenti e ancora aperti dell’Ilva di Taranto e dell’Eni di Gela, tra profonde crisi aziendali e gravi situazioni di inquinamento del territorio, sono l’emblema di una lacerazione troppo spesso ancora irrisolta, nonostante l’esistenza oggi di una legislazione sull’ambiente sempre più approfondita e di una sensibilità per i temi dell’ecologia indubbiamente più matura. 

Nel 1957 l’Ente Nazionale Idrocarburi di Enrico Mattei, fondato nel 1953, era presente in Sicilia con 12 permessi di ricerca per un totale di 367 mila ettari; aveva trovato il gas nei pressi di Catania (contrada Mendola) e un giacimento di petrolio di scarsa qualità (estremamente bituminoso) a Gela, oltre a sottoscrivere con la Regione siciliana un importante accordo per la creazione di due società partecipate per la ricerca e l’estrazione del greggio.

Un’intensificazione della presenza dell’industria di Stato nell’isola auspicata da molti settori politici imprenditoriali locali per favorire un’industrializzazione che non fosse troppo subordinata alle grandi aziende private internazionali o del Nord presenti in Sicilia, in particolare nel settore estrattifero, della raffinazione del petrolio e della chimica. Ma una presenza che era anche duramente avversata da chi riteneva, soprattutto negli ambienti confindustriali e liberali, incluse anche ampie porzioni del mondo cattolico e della Dc (basti pensare a Luigi Sturzo), che l’industrializzazione della Sicilia e del resto del Meridione dovesse essere guidata dall’iniziativa privata e non dovesse comunque competere con le produzioni settentrionali. 

L’industrializzazione siciliana e il ruolo dell’industria di Stato era insomma parte di un dibattito più ampio che riguardava il ruolo dello Stato e dell’impresa privata nell’economia e gli indirizzi produttivi del sistema capitalistico italiano. In Sicilia inoltre il regime di autonomia speciale in vigore dal 1947 aveva trovato la sua più importante legittimazione nel suo farsi motore dello sviluppo dell’isola.

La riforma agraria e le politiche a favore della piccola proprietà contadina (in concorso con lo Stato), la legge sugli idrocarburi, la legge sull’industrializzazione e gli istituti creati per finanziare le piccole e medie imprese erano solo alcune delle importanti riforme di quegli anni, a cui si aggiungevano le tante opere pubbliche della Regione (quartieri popolari, strade, dighe, stabilimenti turistici ecc.) realizzate in concorso con la Cassa del Mezzogiorno e con lo Stato. In questi anni erano cresciuti i consumi privati passati da 292 miliardi di lire a 658 miliardi di lire, si mangiava più carne (+30%), si spendeva di più per il vestiario (da 40 a 68 miliardi di lire), per gli alcolici (da 22 a 46 miliardi di lire), per gli spettacoli (+ 122%). 

Con la legge di rifinanziamento 1957 (760 miliardi di lire fino al 1965), la Cassa aveva inaugurato una nuova stagione di incentivazione diretta delle imprese industriali del Sud (fase industrialista), peraltro imponendo alle aziende pubbliche di localizzare almeno il 40% dei nuovi investimenti nel Meridione.

Si scommetteva su politiche di industrializzazione attiva sotto forma di incentivi fiscali, di finanziamenti a fondo perduto o a tassi di interesse agevolati, e sulla creazione di aree di sviluppo industriale che avrebbero dovuto favorire la localizzazione in determinate aree delle iniziative attraverso la predisposizione di dotazioni infrastrutturali e di servizi realizzati anche col concorso della Cassa. Un sistema di incentivi che invece di privilegiare le piccole e medie imprese, come era nel disegno iniziale, aveva finito per finanziare grandi insediamenti produttivi dell’industria di base. 

Il caso dell’Anic Gela (del gruppo Eni) era uno degli esempi di questa politica dei poli di sviluppo. La decisione dell’Eni di investire su Gela, dopo la scoperta del petrolio, la posa della prima pietra nel 1960, i lavori di costruzione con l’impiego di 7 mila operai transitati direttamente (ma provvisoriamente) dalla condizione bracciantile all’edilizia, l’inizio della produzione alla fine del 1962 generavano grandi aspettative nella popolazione gelese.

L’idea che le risorse isolane venissero lavorate in loco e la promessa di un’industria chimica siciliana, rafforzata dalla scoperta del metano nel territorio ennese di Gagliano Castelferrato, nella logica della verticalizzazione del settore, del rilancio del settore zolfifero, dell’ammodernamento dell’agricoltura, attraverso la produzione di fertilizzanti a buon mercato, sembravano più che una speranza non solo per l’economia locale, ma per quella regionale. 

D’altra parte, secondo Eyvind Hitten e Marco Marchionni, che scrivevano nel 1970, tre differenti «interpretazioni» del processo di industrializzazione gelese coesistevano e confliggevano. Innanzitutto, una narrazione «miracolistica» dell’insediamento Eni a Gela tutta concentrata sui benefici che la comunità locale avrebbe tratto in termini di innovazione, consumi, benessere generali, miglioramento degli stili. Vi era poi una lettura «culturale» di quel processo che sottolineava il conflitto tra una realtà rurale e immobile preesistente e l’efficientismo produttivista della fabbrica moderna.

Infine, vi era una narrazione «integrazionista» che salvava gli effetti positivi indotti dalla presenza del petrolchimico e attribuiva alle istituzioni locali e regionali le responsabilità del mancato sviluppo dell’area. Ma ognuna di queste narrazioni dava per scontato un decollo economico della città che gli autori contestavano radicalmente. 

Il numero di lavoratori impiegati dal petrolchimico si era stabilizzato intorno alle 3 mila unità considerando l’indotto, molti dei quali provenienti da altre località isolane. E anche l’esistenza di un quartiere satellite dell’Eni edificato a Macchitella (un vero quartiere modello all’epoca), del tutto autonomo e separato da un punto di vista urbanistico e sociale dalla città era la testimonianza più evidente di una relazione articolata tra industria e comunità locale. Un rapporto complicatosi dagli anni settanta-ottanta con l’emersione della questione ambientale e con i venti di crisi a spirare sul settore della chimica.

Proprio il fallimento delle aspettative che avevano accompagnato la nascita del petrolchimico, l’assenza di un tessuto industriale indotto dalla presenza dell’Eni, i danni all’agricoltura e al turismo dovuti all’inquinamento hanno reso più stridente la contraddizione tra una questione ambientale sempre più evidente e quel ricatto occupazione che negli anni ha spinto una parte della città a stringersi attorno all’unica fonte di lavoro dell’area. 

Nel 2002, per esempio, la magistratura gelese ha arrestato gli impianti ritenuti fuori legge per l’utilizzo del carbone pet-coke (un sottoprodotto della distillazione dello stesso petrolio) negli impianti della centrale termo-elettrica, un prodotto ritenuto altamente inquinante e bisognoso di procedure particolari di smaltimento. Una decisione che ha causato la durissima protesta dei lavoratori gelesi con decine di posti di blocco e momenti di vera tensione. La mobilitazione di gran parte della classe politica locale e dei sindacati in quell’occasione, nonostante le prevedibili proteste degli ambientalisti, ha portato l’allora governo Berlusconi all’approvazione di un decreto che convertiva il pet-coke in un combustibile, risolvendo con un tratto di penna la questione.

Altre durissime proteste dei lavoratori si sono avute nel 2014 e poi nel 2016 sempre a difesa dei posti di lavori stavolta minacciati dai rischi di dismissione del petrolchimico per la grave crisi del sito produttivo. In quest’ultima occasione si sono prolungati per una decina di giorni manifestazioni e blocchi stradali per chiedere il rispetto degli accordi sottoscritti dall’Eni con Regione e Ministero per la riconversione green dello stabilimento con la produzione di bio-carburanti e con un investimento di più di due miliardi di euro per la bonifica dell’area. Accordi che ancora oggi tardano a tramutarsi in azioni concrete. 

Andrea Miccichè - (Università di Messina, Didattica in classe: Sviluppo, territorio e inquinamento: il caso Gela)