Com'eravamo/ Virgilio Argento, uomo d’altri tempi

Com'eravamo/ Virgilio Argento, uomo d’altri tempi

Virgilio Argento (nella foto) nomen omen.

Non poteva che chiamarsi così. Avrebbe potuto accompagnare Dante, come fece Virgilio, nell’aldilà con cura rispettosa verso ogni dettaglio e pazienza infinita. Sarebbe stato una guida gentile e sapiente, ricca di buoni sentimenti e pensieri illuminati. 

Inutile guardarsi attorno per cercare qualcuno che possa assomigliargli in qualche modo. Di lui potevano nascevano solo pochi in passato, oggi no, è archeologia, non esistono personaggi così. 

Che cosa aveva di tanto diverso Virgilio Argento? Tutto, proprio tutto. Per delinearne la diversità, devo ricorrere alla memoria.  Il ricordo che non ho mai perduto, risale a quasi mezzo secolo fa. La mattina in cui una bambina di prima media morì a causa di un disgraziato incidente nell’ampio piazzale che ospitava il distributore di benzina antistante la Scuola Media Paolo Emiliani Giudice, Virgilio Argento, che ne era il Preside fece visita alla classe che la bambina, Emanuela Bonura, frequentava. Bussò, come era solito fare, entrato in classe gli mancarono le parole.

“Vi capisco”, poté dire. Restammo tutti in silenzio (era la mia ora di lezione), e quel silenzio valse più di mille parole. Quando lasciò la classe, fu difficile riprendere il lavoro. Tacquero i ragazzi, tacqui anch’io. Ci sentimmo partecipi di una dolorosa perdita. La memoria di quel giorno è rimasta indelebile. E Virgilio Argento ne fa parte. 

Virgilio Argento viveva il suo tempo; e il suo tempo non era la contemporaneità. Aveva parole, gesti e comportamenti di stampo antico. Se i galatei sono la cifra del tempo, il suo tempo non era la contemporaneità. Ascoltandolo, ci si sentiva proiettati nel passato. Una macchina del tempo in carne ed ossa: ci trasferiva altrove, bastava chiudere gli occhi, e ti sentivi distante anni luce dalle cure della quotidianità. 

Qualunque atteggiamento o episodio che avesse a recare danno, seppur lieve, all’andamento della scuola, lo faceva star male, lo si intuiva da alcuni gesti: si ammutoliva, se ne stava in piedi, dritto, rigido, poggiando le mani sulla scrivania. O inventava qualcosa da fare.

La scuola era il tempio, l’ara sacrale cui sacrificare ogni istante della vita. Casa e scuola, ma devo aggiungere Dio, patria e famiglia per completare l’immagine. Non era pedante, non conosceva l’ira, sarebbe stato un guaio, altrimenti. Burocrate, certo, ma senza pecche. Tutto doveva funzionare senza intoppi. Se ciò avveniva ne era felice. Una felicità contenuta, s’intende, pudicamente celata.

Queste considerazioni le faccio a distanza di molti anni; se mi fosse stato richiesto di scrivere di lui negli anni in cui lo frequentai da docente, sarebbe prevalso l’invincibile desiderio di giudicare con severità tutto ciò che trovavo retorico, fumoso, decadente. Se oggi di lui parlo con rispetto e, mi sia consentito, anche con affetto non lo devo al fatto che se ne sia andato da molti anni (ottantenne, nel 1999) e che bisogna essere generosi con chi non è più fra noi, ma perché qualcosa è cambiato.

Ho maturato la capacità di essere anche gli altri, non solo me stesso con le mie ragioni, il mio modo di vedere il mondo, la realtà, le persone.  Amavo la scuola, ma non così com’era. Amavo insegnare, ma non come mi veniva prescritto. Credo che Virgilio Argento ne avesse piena consapevolezza. Quando si trattò di nominare un vice, tuttavia, scelse me fra la terna dei docenti più votati. 

Virgilio Argento aveva carisma, se lo guadagnava con un eloquio raffinato e colto, la scrupolosa vigilanza della scuola e le sue regole immutabili: insegnare, istruire, consegnare conoscenze, parole, storie, linguaggi. Salire in cattedra significava assumersi una missione pari a quella di un sacerdote. Vivere diversamente per un educatore era tradire la missione. 

Questa propensione e questo rigore verso le regole era tuttavia attenuata dal tratto umano. Usava il linguaggio della retorica, ma senza enfasi e, evitava di parlare di sé e quando ne era costretto, evitava accuratamente di usare espressioni che potessero accusarlo di incensarsi. 

Virgilio Argento non avrebbe mai fatto male ad una mosca; contrariato, le parole gli restavano nel petto se quelle che stavano per affluire, sarebbero state difficili da digerire al prossimo. A conclusione di un discorso meritava l’aureola della santità, piuttosto che l’applauso.

Perfino la postura, i movimenti, i gesti rispettavano il protocollo della signorilità. Quando camminava, pareva che sfiorasse appena la terra sotto i piedi. Se capitava di incontrarlo, casualmente, fuori dall’ambito scolastico, usava alzare il cappello, in segno di deferenza. Era così garbato da farti sentire in colpa. Ma non recitava una parte, affatto, era così e basta. 

Vi racconto un aneddoto che meglio di ogni altra cosa faccia capire che tipo di uomo fosse il Preside Argento. Fra le mie tante insofferenze verso le regole c’era quella del “voto”, il numero da mettere, nero su bianco, sul registro. E quindi i miei registri erano privi di numeri accanto ai nomi dei ragazzi.

Il preside Argento, fra le tante incombenze, ne assumeva alcune che non erano, come dire, apprezzate: controllava il lavoro dei docenti attraverso il controllo dei registri. Scoprì che nei miei registri non c’erano voti. Invece che farmelo notare personalmente, scrisse sui registri che mancavano i voti, ed era bene che comparissero. Ma usò la matita, non la penna per ricordarmi che a quella regola bisognava obbedire. 

Capite di che pasta era fatto? La scrittura con la matita poteva essere cancellata, la penna avrebbe lasciato un segno indelebile, mi avrebbe macchiato l’immagine. 

Ho anche un altro ricordo che contraddice la visione manichea di Virgilio Argento. Quando gli proposi di istituire un corso di giornalismo per gli studenti gelesi, non solo i ragazzi della Paolo Emiliani Giudici, condivise l’iniziativa e si adoperò perché tutto si svolgesse, ovviamente, con la massima regolarità. 

Scorrendo fra i ricordi che gli sono stati dedicati dopo la sua scomparsa, ho appreso quanto fosse infaticabile la sua opera di acculturamento svolta nella qualità di presidente del Distretto scolastico. Era un etnologo, ha curato una lunga serie di opere dedicate alle tradizioni popolari, a personaggi e storie locali. Ogni libro da lui scritto, ogni opera da lui curata è lo specchio della sua personalità di antico conio, retta, diligente, generosa. 

Un uomo così non avrebbe mai potuto far parte delle conventicole politiche. Ed infatti ne rifuggiva. Non è che lo cercassero, beninteso. 

Le sue idee, la sua cultura, la fede religiosa, lo schieravano da una parte, ma non passò mai il Rubicone, non divenne mai né un dirigente né un militante di partito. Sarebbe stato complicato fargli coniugare i bisogni e le regole. Ebbe, è il caso di dire subì, una vivace polemica a causa della sua ammirazione per Salvatore Aldisio, per il quale aveva scritto una biografia apologetica che conserva il timbro antico. 

Nonostante avesse usato uno pseudonimo, forse per il carattere schivo, ebbe il dispiacere di apprendere che qualche altro si era annessa la paternità dell’omaggio a Aldisio. In questa occasione, magari a malincuore, scrisse di suo pugno una precisazione, che andrebbe ancora oggi studiata per la sua parsimonia e sobrietà. Nella controversia intervenne, per un expertise, Nunzio Sciandrello, docente e preside, che assegnò la paternità a Argento. 

Come abbia maturato una personalità così scevra dai rumori della modernità e dai conflitti è un mistero perché nella sua vita ci sono stati giorni assai difficili, che avrebbero potuto avvelenare la sua aristocratica compitezza. Conobbe gli orrori della guerra, fu internato in un lager nazista, il lager di Sandhostel, ubicato in una area paludosa e terribilmente fredda, dove tanti prigionieri di guerra persero la vita, morendo di stenti, malattie o furono vittime di esecuzioni sommarie.

Era lo stesso campo di concentramento in cui furono internati Louis Althusser, Giovannino Guareschi, Gastone Aufrere e Leo Malet. Una esperienza atroce, della quale Virgilio Argento non parlò mai a scuola, come se volesse tenersi per sé la memoria o volesse evitare di utilizzarla come captatio benevolentiae. 

Quella sofferenza non la fece pagare a nessuno, lo rese forse migliore, ancora più cauto e attento. E di ciò gli va reso merito. Quel bisogno di ordine, disciplina, regole, potrebbe essere il retaggio di quell’esperienza traumatica. 

Per chi aspirava a cambiare le cose, avere accanto una personalità ed un educatore come Virgilio Argento, può essere una fortuna. Il preside Argento obbligava a fare i conti con le malizie, i piccoli privilegi che i “rivoluzionari” si assegnano sull’altare dell’avvenire migliore. 

Quando mi volto indietro e ricordo il preside Argento perciò mi capita di fare l’esame di coscienza e imparare dai miei errori di gioventù. Virgilio Argento non aveva bisogno di salire in cattedra per insegnare le buone maniere e il rispetto per gli altri. 

L’immagine che mi sono fatta di lui, manca di qualcosa che non posso raccontare, perché se n’è andata insieme a lui. Credo che accanto al garbo ed alla bonomia, dietro la maschera di persona conciliata con sé stesso e la sua storia, ci fosse altro, tanto altro, quegli indimenticabili giorni atroci nel lager tedesco: fatti, sentimenti, pensieri che non si possono spartire con nessuno, perché sono indicibili.