Editoriale 2/ Gela bisogna meritarsela. Ma come?

Editoriale 2/ Gela bisogna meritarsela. Ma come?

Siamo figli delle nuvole, fili di una trama oscura. Facciamo fatica ad alzare gli occhi quando il sole è alto; la luce ci abbaglia, obbliga a tenere la testa bassa, contare i passi uno dopo l’altro.

Ed è impossibile voltarsi indietro, il presente incombe, fa paura, impone una egemonia che ci spoglia della nostra identità. L’anima ha bisogno di vedere al di là delle nuvole; è lì, nell’immaginario intriso di spirito, che si costruisce l’idea di sé e dell’universo in cui viviamo. L’universo breve, intendo: la comunità, il luogo in cui viviamo. Pensiero inconsueto, ne ho scritto in uno dei rari momenti rubati alla routine quotidiana.

Che cosa lo suscita? La coscienza di sé, forse, piena e intellegibile, che notifica la misura della nostra vivenza e offre un’idea valoriale della appartenenza alla patria affettiva. La coscienza si evolve, ha una storia, radici profonde, poggia sulla nostra identità; in una prospettiva positiva di idea valoriale essa riduce le asperità dettate dalle pulsioni negative e accresce quelle che ci regalano attitudini ed equilibrio. La coscienza di sé, inoltre, è fatta di valori, principi, cultura, stima di sé. Su di essa si può costruire l’appartenenza. 

Chi non ha patria (valoriale) può sentirsi spossessato di una parte di sé; e chi, pur avendola, non la riconosce, vive immerso in una nebbia che offusca ogni orizzonte: fisico, biologico, culturale. Più ricca è la patria valoriale su cui affondano le nostre radici, più grande è la perdita e la conseguente responsabilità di essa. 

Questi pensieri, che appaiono così lontani dalla realtà, tanto da farci dubitare di noi, sono figli delle nuvole, così passeggere eppure così resilienti (se ne vanno al primo alito di vento, ma tornano, talvolta tormentandoci). Coloro che vivono una condizione di privazione della identità, sanno di stare pagando l’assenza di radici. Si può avere il know how, tante abilità e tanto talento, e non riconoscere la propria appartenenza se questa è legata unicamente all’identità fisica, separata da quella valoriale, la sola che elegge una patria plausibile. 

Qual è la patria plausibile? L’appartenenza non può essere gelosa, chiusa, egocentrica, escludente (nazionalismo e campanile, muri, confini da proteggere, diversi e stranieri da cui star lontani), né contraddire le tendenze verso cui l’idea di patria affettiva si evolve nel tempo. Eleggendo Gela come patria affettiva, ho il dovere di chiedermi che idea mi sia fatto di essa e della comunità che in essa vive. 

Ricordavo in un mio recente articolo dedicato a questo tema, che mi sta a cuore, la parabola sulla semina: Gesù, nel Vangelo di Luca, misura quanto volubili e deboli siano le radici: se il seme si getta sulla strada, viene calpestato e gli uccelli se ne nutrono; se cade sulla pietra, appena germogliata, secca perché non c’è umidità; e gettato tra i rovi, viene soffocato. Solo una parte cade sul terreno buono, dove germoglia e fa frutti. Gesù è severo, conosce la realtà e vive con pienezza la sua umanità. Il terreno è la natura, il luogo in cui viviamo: terreno rassodato, curato, amato; o trascurato, ignorato, se non addirittura odiato e maledetto.

Quando le cose vanno male, con chi ce la prendiamo, se non con il terreno che calpestiamo, e con quelli che ci vivono insieme a noi su quel terreno. La quotidianità non dà tregua, ci tiene la testa bassa, facendoci contare i passi. Qualche volta ci regala una pacca sulla spalla, ma dura lo spazio di un mattino. L’universo breve in cui viviamo può trasformarsi in uno stato di vuoto girando l’angolo e coglierci alla sprovvista; il vuoto non è tuttavia il nulla, ma uno stato materiale, la quotidianità, nella quale fluttiamo, smarriti, intorpiditi, disamorati, affaccendati senza tregua. 

Come possiamo rassodare il terreno, e mettere radici robuste, se non attraverso la conoscenza, l’istruzione, la cultura, l’amore per ciò che pur non essendo nostro, ci appartiene. La comunità in cui è depositata la nostra storia, il suo presente, il futuro ci appartiene. La coscienza di sé c’è perché c’era, c’è sempre stata. Il punto, semmai è: fino a che punto abbiamo il diritto di rivendicare l’appartenenza se la nostra comunità frammentata, la sua realtà ci è estranea e per ciò stesso irriconoscibile? 

Siamo chiamati alle nostre responsabilità. Le aspettative sono alte, specie da parte dei dormienti, e pochi ambiscono a mettere ordine alle conoscenze e costruire una appartenenza giudiziosa e informata, creando la cornice dentro la quale incubare le arti, resuscitare la storia, distillare la diversità per mostrarla e confrontarsi, aprendo porte senza timore pregiudiziale dell’ospite. 

Ventisei secoli or sono Gela accolse pensatori e poeti, al pari di Siracusa, ed ancora oggi le pagine di storia antica narrano la città greca, la cui memoria è stata rubata dalla famelica caccia dei ladri d’arte. Si è preferito suonare la grancassa del narcisismo separatista piuttosto che il flauto della memoria condivisa, che si serve di una lingua inclusiva e di una patria affettiva, cui affidare uno spazio simbolico dentro il quale riconoscerla e farla conoscere. 

Le classifiche annuali sul benessere nei territori che annualmente vengono esibite da dotti analisti facendone un uso farmacologico per curare gli improvvidi e segnalare le colpe dei malati, trascurandone le conseguenze tossiche, sono pagelle esangui ed impavide che misurano la realtà riconducibile a tutto ciò che è calcolabile. Una sorta di omologazione à rebours, realizzata con il gessetto sulla antica lavagna sulla quale accanto a nomi e cognomi sono segnalate virtù e malandrinerie secondo le regole delle società bocciofile. 

La solitudine dell’apolide fa roca la voce e stravolge il viso, intinge i sentimenti nell’inchiostro nero dell’ira. La posta è alta, la partita della vita si può giocare una volta sola. Davanti al tribunale della storia siamo un granello di sabbia, pur rimanendo soggetti di diritti e doveri ineludibili. Mi viene di proporre una metafora ardita, che ricorda il grande avvocato dei “colpevoli” nei processi politici, Jaques Vergès.

Chi siete? Chi rappresentate? Qual è la vostra ragion d’essere storica? Chiede ai magistrati del Reggente d’Ungheria Horthy, l’imputato comunista Rakosi, capovolgendo le regole del processo. E’ il 1925, in piena temperie rivoluzionaria. Ma potrebbe accadere in ogni aula di tribunale, e fuori dai palazzi di giustizia, ovunque, quando qualcuno domanda conto e ragione del suo operato al proprio simile in nome di una gerarchia, di una appartenenza istituzionale, reclamando il diritto a rappresentare una comunità, una nazione, la stessa umanità, processando quelli non hanno le carte in regola. 

La folla dei giudici è così alta che non resta alcuno fuori da essa. Chiunque voglia processare Gela deve avere le carte in regola. E’ una pretesa dura, perché esorbita dal mero aspetto della legalità, che pure è tanto. Le carte non sono fioretti e promesse davanti agli altari, pretendono impegno, fatica, conoscenza, passione. Posso esibire ben poco, invero, per giustificare i miei cahier de dolèance, fastidiosamente ripetitivi. 

Per ben quattro anni ho studiato Eschilo, il suo genio poetico, politico, filosofico. A Gela, città dove sono nato, Eschilo ha abitato circa tre anni, gli ultimi della sua vita. Le fonti, unanimi, riferiscono che è venuto a Gela ed è morto a Gela. La ricerca, infruttuosa, del teatro greco, ha seppellito il grande poeta tragico; ne ha quasi smentito la presenza a Gela. Nulla ricorda la sua presenza: né reperti, né scritti o altro. Dalle campagne di scavo, che hanno fatto emergere copiosi resti della polis greca, non è emerso alcun segno della sua esistenza. La porzione di vita che è stata assegnata a Eschilo durante la permanenza a Gela è ignorata.

Come la sua tragica morte. Narrare l’intreccio di destini personali e storici di Eschilo, per cercare la verità sulla sua morte, è stato come farsi largo con una roncola nell’intrico di una giungla, dove tutto sembra uguale, indistinto.

L’esuberanza del fitto fogliame sgomenta e seduce: la voglia di penetrare dentro l’intrico convive con quella di sfuggirlo, appena qualcosa guadagna senso, una semplice foglia o una lama di luce che attraversa indenne la vegetazione regala l’illusione di trovare l’impronta del poeta, o la sua ombra, inducendo a proseguire e non voltarsi indietro, armati di machete e obbligati dalla forza della necessità. Ne è valsa la pena? Basterà per meritare la patria affettiva ed espiare la lontananza?