Gela non è più Mafiaville, ma i mafiosi del quartierino alzano la testa. E possono procurare guai

Gela non è più Mafiaville, ma i mafiosi del quartierino alzano la testa. E possono procurare guai

No, Gela non è più Mafiaville, ma è come se lo fosse ancora.

Ogni volta che la criminalità, organizzata e non, si fa beffe della comunità e con un colpo di coda lascia comparire i fantasmi degli Anni Ottanta, la macchina mediatica mostra l’inquietante passato. E ci ricorda che le scene di western vissute a Gela dei giorni scorsi vengono da lontano. Non è la mala immagine che brucia, non solo questa, ma il “sentiment” che provoca nell’immaginario. Rabbia, frustrazione, doloroso senso d’impotenza. E quella malinconia nell’animo di chi c’era prima della rivoluzione industriale. 

Affiora una ingenua nostalgia, mandando indietro l’orologio del tempo si esita ad attraversare il Rubicone degli Anni Sessanta. C’era la povertà prima della comparsa del mostro con sette teste sorto ai piedi della collina. Comunque la giri, Gela città arrancava alla ricerca di piccoli espedienti per sopravvivere: cotone e frumento, l’archeologia e il bel mare d’agosto. Con quel che c’era che bisogna fare i conti prima di celebrare il rito dell’abiura. L’industria ha cambiato tutto e seppellito perfino la storia, che rendeva i gelesi orgogliosi, ma non può essere rinnegata senza rinnegare il tuffo nella modernità e nel futuro con tutte le sue contraddizioni, le sue malandrinerie, i suoi tradimenti. 

I duemilacinquecento anni di storia che hanno preceduto le trivelle sulla pianura e nel mare del golfo di Gela, dall’arrivo dei Rodio-cretesi a quello degli Americani nel 1943 gonfiano il petto negli anniversari promossi da spiriti illuminati, che vivono come sopravvissuti a un naufragio aggrappati ad uno scoglio affiorante tra le spume del mare.

Non è un disconoscimento dell’identità che promuove la faticosa vigilanza sul passato, ma la voglia di ricordare alla comunità ed al resto del mondo, che Gela c’era anche prima. Prima che il bosco di Bulala fosse sacrificato al petrolchimico, prima che il mare fosse invaso dalle petroliere, prima che sparissero i suoi pescatori di sarde e i fabbricanti di mattoni. Prima che i maestri scendessero dalle cattedre per indossare le tute, che i braccianti e i contadini abbandonassero una terra avara per vivere con dignità grazie a un salario garantito. Prima che l’aria ammorbasse il respiro e odorasse di muffa. Prima che gli alberi imbiancassero a causa dei fumi dello stabilimento. 

Una causa persa, la ricerca della buona e bella Gela “di prima”. Alla quale però non ci si può tirare indietro. Il fascicolo va aperto, come fanno i magistrati, anche quando non hanno individuato la notizia di reato e non possiedono la lista dei presunti colpevoli. 

Più che un processo che faccia pagare il malfatto, Gela ha anche bisogno di guardarsi indietro per compiere un balzo verso un futuro dignitoso. Si tratta di passare dall’industrializzazione senza sviluppo, come la definirono i profeti disarmati della nuova Gela, Hytten e Marchioni, alla città che investe sulle sue risorse, umane e economiche. Dovrà essere aiutata, certo, ma al centro della scena deve esserci la sua comunità. Aspettare che arrivi la manna dal cielo non rende meritevoli di alcunché. 

Quando si è tornato a sparare a Gela, poche settimane fa, presumo che siano stati molti a dire “ci risiamo” per via di quanto è accaduto negli anni ottanta. Ma non è così. Abbiamo il dovere di capire che cosa è successo all’inizio per capire quel che c’è ancora. Non ci sono i grandi appalti della Cassa per il mezzogiorno e dell’Eni, non c’è più l’indotto con le se sue centinaia di piccole e medie imprese, non ci sono le lucrose commesse all’interno dello stabilimento e nei paraggi, non c’è la rigogliosa crescita dei “padroncini” che monopolizzavano il trasporto della materia prima. La mafia non è scomparsa, naturalmente. E’ ancora attiva, ma è una mafia territoriale che di notte brucia le auto del nemico, e si scalda i muscoli quando non ne può fare a meno. Stiddari, dunque. Boss indigeni, ambiziosi e pericolosi, ma dediti allo spaccio e pronti ad avventarsi sul racket. 

E’ la coda velenosa quella che la città vive in questi giorni. Mafiaville  non è nata per caso. E’ nata perché gli ingenti investimenti, nel settore pubblico e privato, hanno arricchito grandi imprese del nord e grandi famiglie di mafia. 

Quando iniziai il mio lavoro di cronista a Gela si registrava un delitto l’anno. Delitti passionali o parentali. Né misteri né segreti, qualche giorno d’indagine e manette ai colpevoli. Si è cominciato ad ammazzare con l’arrivo dei soldi, cioè dell’industria. E’ accaduto tutto il contrario di quello che predicavano i sociologi del tempo, gli effetti moltiplicativi e la resurrezione, calata dall’alto. L’equazione fra industria e sviluppo, con l’industria nella parte della fata Morgana, avrebbe reso più buona Gela, secondo i sermoni dell’ottimismo, arruolati alla causa dello sbarco a Gela. 

Possibile che non prevedessero la corsa all’oro delle bande attratte dai soldi e armate di Winchester e calibro 38? Negli anni del Grande Inganno la città ha affrontato a mani nude il crimine organizzato e la stessa ordinaria amministrazione. La giustizia era affidata ad un pretore onorario, le forze dell’ordine presidiavano il deserto dei Tartari, Caltanissetta. Stato assente, una condizione che non dispiaceva i nuovi potenti.

Possibile che non sapessero che cosa sarebbe accaduto? E ancora. Possibile che non sapessero quali conseguenze per l’ambiente e la comunità avrebbe avuto la raffinazione del petrolio, la centrale a carbone la produzione di semilavorati fortemente inquinanti? No, non è possibile. 

Ad essere magnanimi possiamo pensare che non avessero fatto i conti con l’attitudine dei manager, a Gela e Milano, di patteggiare con i boss ed i padrini politici quel che loro spettava. 

In Sicilia, non solo a Gela, l’industria ha operato con metodiche e “protocolli” identici a quelli messi in opera nei paesi arabi e nel Terzo Mondo (così allora si chiamava quella parte del pianeta che subiva le angherie dei potenti). Senza scrupoli. C’è perciò un cahier de dolèances folto e inoppugnabile, che non è stato ancora scritto, letto ed ascoltato. 

Il silenzio che aleggia sul cielo della vecchia Gela è dolorosamente rumoroso. La comunità si sente appagata, secondo i più critici. Pare che gli espulsi dal petrolchimico possano contare su un reddito accettabile e che Gela sia diventata una città di pensionati dell’industria. Così, i giovani se ne vanno e quelli di una certa età fanno buon viso a cattivo (?) gioco. Sono segnali inequivocabili del declino. 

Niente consente di sentirsi con l’animo in pace. Quelli che contavano hanno avuto le mani in pasta, accettato di buon grado il clientelismo, i patti sottobanco, e hanno taciuto quando c’era da urlare. Hanno lucrato sui posti di lavoro distribuiti con il manuale Cencelli, sulla lottizzazione dell’indotto, sulla speculazione fondiaria ed edilizia. Non possono considerarsi vittime del destino cinico e baro, né starsene affacciati alla finestra per vedere come va, o questuare a Palermo o Roma l’obolo degli indigenti. 

Fare i conti con la propria storia non è stato mai una qualità delle classi dirigenti, a Gela come altrove. Ma qui, in questa fascia meridionale della Sicilia, c’è l’obbligo di drizzare la schiena, chiudendo con un passato di comparaggio e, in qualche caso, di codardia.