L’Editoriale/ La lunga guerra del sig. Franzone

L’Editoriale/ La lunga guerra del sig. Franzone

Filippo Franzone è un signore di mezza età che si guadagna da vivere anche con la manutenzione degli infissi (in realtà, è un apprezzato ebanista).

E’ alto e robusto, e tiene gli occhi bassi perché così è stato educato. Sorride, e quando lo fa, gli viene dal cuore. Preferisce sedere in seconda fila, nonostante guidi una battaglia storica: ha legato il suo nome a Gela provincia. 

L’ho incontrato una sola volta, in casa di un amico, a Gela, e non posso aggiungere altri dettagli sul suo conto, se non che mi ha fatto una buona impressione. Difficile spiegare il motivo.

L’empatia, al pari di altre emozioni, non appartiene alla sfera della volontà. Il cervello precede inconsciamente le nostre azioni. E talvolta si premura di smentire le idee che ci siamo fatti. Non è male fidarci, si sbaglia meno quando ci lasciamo trascinare da una emozione, piuttosto che da ragionamenti e ricordi confusi e contraddittori.

Prima di fare la conoscenza di Filippo Franzone – in piena estate, a Gela – conoscevo i suoi comunicati, prolissi e pieni di enfasi, che mi faceva pervenire con puntualità nella qualità di Coordinatore del Comitato per lo sviluppo dell’area di Gela. Erano, a metà, sfoghi di un gelese amareggiato e requisitorie sulle cattive maniere delle istituzioni siciliane, segnatamente l’Assemblea regionale, sigillo della autonomia differenziata. Vi leggevo iter legislativi e complicate procedure burocratiche, passione civile e fedeltà alla causa. Diffidavo che essi potessero mobilitare la comunità.

Mi ero fatta l’idea che fosse una specie di garibaldino, in cerca di visibilità, impegnato su un fronte ostile, nell’assedio a un fortino inespugnabile. Pochi avrebbero seguito, mi dicevo, quel volenteroso giovanotto, cresciuto suo malgrado nella considerazione dei suoi concittadini. L’ho considerato con il sussiego di chi crede di saperne di più e di potere fare meglio. Arroganza congenita, malattia incurabile di chi vive nel giardino di casa e conosce solo chi lo frequenta. 

Il sorprendente successo del referendum sulla migrazione dall’ex Provincia di Caltanissetta alla città metropolitana di Catania mi ha sorpreso e indotto a archiviare la supponenza. Il 90 per cento dei partecipanti al referendum, hanno manifestato il loro consenso alla strategia di Franzone, nonostante dovessero esprimersi su un iter avventuroso (trasferimento da Caltanissetta a Catania del capoluogo). 

Franzone ha promosso una mobilitazione senza precedenti; niente di simile può essere annoverato nelle pagine di storia locale dalla politica, dalla classe delle professioni e della cultura. Franzone non è un uomo politico di mestiere (né in prestito), non è un intellettuale, come è comunemente intesa questa figura nebulosa, né un narciso innamorato di sé. Fare di Gela un capoluogo di provincia è lo scopo della sua cittadinanza attiva. Si è scontrato con la più ostica delle burocrazie, quella regionale, custode dello status quo, dell’immobilità, dell’inerzia. 

La storia di Gela-provincia risale al Ventennio, quando Terranova divenne Gela, e il Fascio modificò la mappa delle provincie, assegnando Piazza Armerina a Enna, Modica a Ragusa e lasciando Gela a Caltanissetta, capoluogo. Con lo Statuto speciale della Regione, com’è noto, sono sorti, sulla carta, i Liberi consorzi dei comuni, che nelle intenzioni dei costituenti avrebbero dovuto rifare la mappa delle province, affidandosi alla volontà dei cittadini.

L’Assemblea regionale, cui è stato consegnato lo Statuto, ha voltato le spalle ai padri fondatori. Non ha mai adottato le norme di attuazione, quelle di sua competenza, lasciando che esse vivessero sulla carta.

Negli anni novanta, ha cambiato alcune funzioni nelle provincie, senza ridisignare la mappa, né consultare le comunità interessate, come pretende lo Statuto, sicché la Sicilia, profondamente mutata – industria, agricoltura, risorse energetiche – è restata quel che era prima nell’assetto burocratico. Città come Milazzo, Canicattì, Marsala, Mazara del Vallo, Sciacca, Modica, Gela ed altre, aree di sviluppo sulle quali lo Stato ha investito ingenti risorse, hanno mantenuto una dipendenza (burocrazia e servizi), ai vecchi capoluoghi. 

Nel secondo Millennio, grazie ad una operazione di snellimento burocratico e ridimensionamento degli apparati politici, la fine delle province, la Sicilia ha annunciato, attraverso il Presidente della Regione, Saro Crocetta, che avrebbe finalmente attuato le norme sui Liberi consorzi, mettendo in moto il meccanismo con la fine delle vecchie provincie e le dismissioni degli apparati politici provinciali. Si è rivelata una immane turlupinatura.

La legge regionale sui Consorzi, scritta da menti raffinate, è una cintura di castità imposta alle realtà emergenti, un matrimonio indissolubile, imposto alle comunità locali, vincolate all’ubbidienza. I “liberi consorzi” sono stati sequestrati. In più, la modesta flessibilità consentita, non è stata rispettata dai legislatori che l’hanno concessa. Un paradosso, che misura la qualità delle rappresentanze parlamentari regionali che, nel tempo, si sono alternate a Palazzo dei Normanni. 

E’ vero che Gela, insieme ad altri comuni, ha adottato un espediente, su cui è legittimo nutrire perplessità. Il referendum, infatti, ha chiesto ai cittadini di esprimere il consenso ad una migrazione di Gela da Caltanissetta a Catania, al fine di creare le condizioni per istituire successivamente, un Consorzio di comuni, che avesse Gela capoluogo.

Questo passaggio, obbligato, ha il difetto dell’assoluta mancanza di certezza della “fase due” e conferma l’idea di dispettoso campanilismo, una ruggine anti-nissena, che non ha una motivazione politica ed amministrativa (la semplificazione burocratica e la equa distribuzione dei servizi). Ciò non ha fatto, e non fa, gli interessi di una comunità, quella del comprensorio di  Gela, che ha bisogno di una sanità che funzioni, di trasporti che agevolino il commercio, di una equa fruizione di beni culturali, di una cura per delle questioni di rilievo (trasporto ferroviario, portualità, salute pubblica, decentramento burocratico ecc.). 

Avere condotto una battaglia, in passato, “Gela provincia e bacino montano”, il noto slogan coniato dai gelesi in occasione della venuta di Mussolini a Gela, quasi che si trattasse di appendere una medaglia al petto, non ha aiutato la causa, al pari delle promesse dei politicanti che hanno cavalcato la vicenda nelle vigilie elettorali.

Non sono però queste le ragioni delle remore e delle resistenze all’istituzione del Libero Consorzio. Gli organi  decisori, Parlamento e governo regionali, hanno impedito la riforma burocratica per due ordini di motivi: il forte dissenso di burocrati e apparati, interessati a non permettere il disallineamento a favore delle realtà economiche emergenti (non solo Gela), e la scomposizione delle circoscrizioni elettorali regionali, che costringerebbero i parlamentari in carica o in pectore a misurarsi in bacini elettorali del tutto nuovi, e quindi ben più impegnativi. Chi ha investito sulla sua clientela, consenso, relazioni, non vuole perdere il tesoretto custodito nel tempo. 

Il recente turno elettorale, tuttavia, ha visto il debutto di nuove circoscrizioni elettorali nazionali, a causa di una legge studiata per assegnare, ancora una volta, alle oligarchie centrali, il diritto di nominare i parlamentari. Gela si è ritrovata, per fare un esempio, a capo di una circoscrizione, che ridisegna, parzialmente, i confini e gli ambiti.

Qualcosa è cambiato. Le istituzioni regionali non hanno potuto farci niente. La novità, tuttavia, potrà aiutare ben poco Filippo Franzone; resta nelle mani dell’Ars il timone. Gli eletti, tra l’altro, non hanno nulla da spartire con la comunità che li ha preferiti (la sponsorizzazione del sindaco Greco è stata decisiva). 

Michela Vittoria Brambilla, eletta a Gela, ci ha appena informato di essersi iscritta al gruppo misto, perché gli animali che lei rappresenta, specie cani e gatti, non hanno partito, e sarebbe come tradirli se si legasse ad un gruppo parlamentare. La notizia è passata inosservata; Filippo Franzone ha dormito serenamente nel proprio letto, dopo averla appresa.

Il sonno agitato lo coglie e gli provoca la bile. Quando la illiberalità delle norme regionali e l’irritante stand by dei tribunali amministrativi lo deludono, facendo orecchie da mercante sulla sorte toccata al referendum ed alle delibere dei consigli comunali (Niscemi, Piazza Armerina, Gela, Licodia Eubea).

La salute di Franzone, quindi, non mi preoccupa. Ha retto per molti anni all’impossibile, senza tirarsi indietro. Quel che preoccupa è la sua leadership, solitaria, del Comitato per lo sviluppo dell’area di Gela. E’ una solitudine che rende merito a Franzone, ma mostra il deserto di intenzioni e iniziative, la cecità cosciente dei signori con il doppio petto blu e dei cittadini pensanti e senzienti.

Forse occorre cambiare comunicazione e porre l’accento sul rapporto stretto che la qualità indecente di servizi di prima necessità e la dipendenza storica fra Gela e il capoluogo. Una distanza che non si misura in chilometri, ed una sordità che non si cura con l’Amplifon. Si dovrà pure, prima o poi, prendere atto che questa storia ha poco a che fare con il campanile, e molto, moltissimo, con la gerarchia dei bisogni, elaborata a Caltanissetta e subìta a Gela.