Il mio Sessantotto-2/Un barattolo pieno di nulla (di Silvana Grasso)

Il mio Sessantotto-2/Un barattolo pieno di nulla (di Silvana Grasso)

Ero troppo ragazzina nel ‘68, anche se già adulta di testa, per fare valutazioni sociologiche, femministe, etiche, sul movimento.

Da noi in Sicilia il Sessantotto sbarcò nei primissimi anni Settanta, ma senza che noi ragazzi ne avvertissimo la portata. Per questo ho deciso di farvi “raccontare” il Sessantotto da Nerina, la bellissima ragazza protagonista del mio nuovo romanzo in uscita i primi di ottobre “La domenica vestivi di rosso” (Marsilio).
Questa Nerina-Silvana (mi sgamo da me prima che lo faccia il lettore), in modo critico, non cinico ma reale, entra “armata” della sua intelligenza nel back-stage del femminismo che, per lo più, dalle ragazzine del Sud veniva percepito come uno strumento efficace per liberarsi dalle mutande, copulare senza tanti perché, e affermare così una vittoria femminile (più che femminista) sulla subcultura del pregiudizio maschile.

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«Il Sessantotto, o meglio un confuso aroma di Sessantotto, arrivò pure in Sicilia, ma solo due anni dopo, nel Settanta, e senza traghettare lo Stretto di Messina come chiunque sul Caronte.
L’emancipazione, parola da noi sconosciuta, ci fu lanciata addosso dal Nord Italia come una bomba da un caccia in tempi di guerra. Era in verità solo un barattolo vuoto pieno delle stronzate che ognuno dava alla sconosciuta emancipazione senza che poi un altro potesse correggere o smentire. Non era uno di quei barattoli in ceramica smaltata bianca, che si vendevano al mercato del giovedì, con su scritto, bello chiaro e grosso, Zucchero Sale Caffè e, una volta acquistati, si usavano secondo le indicazioni e non c’era truffa né delusione sul contenuto.

Troppa allevata concimata ignoranza c’era da noi al Sud e la zavorra di nozioni, studiate al Liceo o in qualunque altra scuola, non serviva affatto a spiegare questa nuova strana parola. La Storia, che ci somministravano al Liceo come un purgante, era sempre quella da preistorico programma ministeriale. Quell’altra, «Storia sessantottina» che, nelle premesse o nelle presunzioni o nelle suggestioni, avrebbe demonizzato il passato, rivoluzionato il presente, rimpastato il pensiero, espiantato il cervello, lobotomizzato la consuetudine, ove necessario, non sembrava affatto “Storia!” ai vecchi prof di Storia e Filosofia, che la sera prima ripassavano su logori sunti del Bignami la lezione del giorno dopo, via via che negli anni la memoria perdeva date luoghi nomi battaglie come fossero dentini da latte.

Tra le prime parole a finire dentro il barattolo dell’«emancipazione» ci furono Sesso Fumo Minigonna. Parole d’ordine per le ragazze “emancipate”, alla cui etnia io non appartenevo, perché dei tre requisiti richiesti me ne mancavano due fondamentali: Sesso e Fumo. Portavo però la minigonna e con non poca ammirazione da parte di brufolosi studenti del liceo.
Non fumavo, fumavano le più stronze “emancipate” e usavano la sigaretta, nella chela delle labbra, come simulazione d’una fellatio allora molto di moda tra gli studenti, che pensavano di potere digerire il Sessantotto come un arancino e berselo come una birretta.

Della droga si parlava molto al Liceo, molto e a vanvera, faceva moda, faceva emancipazione, ma nessuno di noi l’aveva mai vista, né mai ne eravamo venuti a contatto in un qualsiasi modo.
Era solo un argomento di moda, di cui parlare oziando per chiose di retorica nei corridoi, durante l’intervallo, o in classe, solo ed esclusivamente nell’ora di religione.
Il sospetto di noi ragazzi di prima Liceo era che a padre Cozzubbo scocciasse fare il professore di religione, spiegare i vangeli, la Bibbia, i sacramenti, come il professore di greco spiegava la Tragedia, Eschilo Sofocle, o la commedia d’Aristofane.


La droga gli offriva un argomento di moda, un ottimo appiglio per fottersi lo stipendio senza fare un cavolo, tranne che fingere d’ascoltare gli studenti, mentre sparavano cazzate o addirittura giuravano d’averne presa, i più idioti.
Fu mio professore di religione ininterrottamente, dalla prima media all’ultima classe del liceo. Aveva un mucchio d’anni imprecisabili e, quando incontrai nel Mito il gigante Encelado, pensai che avesse la stessa millenaria età.

Alle medie il suo argomento era stato per tre anni, sempre e solo, la Famiglia e i suoi presunti valori. L’argomento, certo, non faceva male ma io, che avevo poche e confuse idee sulla Famiglia, passavo le sue ore per lo più al cesso, o in corridoio a leggere Sartre. Quello della Famiglia era un argomento su cui ero proprio impreparata, chiunque ne sapeva o fingeva di saperne più di me, anche quelle stronze emancipate, che non capivano un tubo d’analisi logica, che non facevano differenza tra verbi transitivi intransitivi e servili, per non parlare poi di grammatica e sintassi latina. Ma facevano mirabili acrobazie sessuali e contorsionismo erotico nelle 500 Fiat di seconda o terza mano, assecondando il vangelo sessantottino secondo cui l’emancipazione sessuale non decapitava affatto il pudore ma solo l’ipocrisia.

Così l’ora di Religione, che per tutti in classe era la più innocua e desiderata, divenne per me un tormento, una iattura, da cui mi salvavano solo finti mal di pancia o autentici conati di vomito, quando si parlava della mamma come la Madonna madre di Gesù, e a me veniva in mente la mia, che continuava ancora, dopo 15 anni, a tormentarsi e tormentarmi sul perché io fossi nata contro ogni sua volontà.

Al Liceo per tre anni l’argomento esclusivo e tassativo dell’ora di religione fu la droga. Mai nessun altro argomento, nemmeno quando a pochi metri da noi, sotto un albero di limoni tanto gialli che parevano pitturati a olio, furono trovati morti due picciotti manovali: si amavano teneramente senza speranza di comprensione, e per questo s’erano uccisi.
Da noi con disprezzo li chiamavano finocchi, ma la televisione, nella cronaca della tragedia, li chiamò omosessuali, e questo mi piacque moltissimo. Pur se mi era sconosciuta, avevo solo 15 anni, la parola omosessuale sembrò dare dignità, almeno di scienza se non di considerazione, a due bravi ragazzi lavoratori, la cui unica colpa era quella d’amarsi in un paese in cui, per tradizione, un maschio copulava una femmina, non un maschio.

Cosa ne è rimasto del Sessantotto? Per qualcuno la molestia d’un vago ricordo che, ogni tanto, s’affaccia improvviso alla coscienza, improvviso come rigurgito d’acido su per l’esofago, di cui liberarsi con un vigoroso sputo nella tazza del cesso. Per i più nemmeno questo».

(Tratto dal romanzo di Silvana Grasso La domenica vestivi di rosso, Marsilio, in uscita a ottobre)